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Premesse

Il 28 marzo 2014 sono state pubblicate sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea le tre direttive che riformano il settore degli appalti e delle concessioni: la direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici nei cosiddetti settori ordinari, la direttiva 2014/25/UE sugli appalti nei cd. settori speciali (acqua, energia, trasporti e servizi postali) e la direttiva 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione.

Le direttive sono entrate in vigore il 18 aprile 2014 e dovranno essere recepite dagli Stati membri entro il 18 aprile 2016.

La direttiva 2014/24/UE e la direttiva 2014/25/UE modificano e sostituiscono, rispettivamente, la direttiva 2004/18/CE e la direttiva 2004/17/CE, allo scopo di realizzare una semplificazione e una maggiore flessibilità delle procedure, nonché avvicinare la disciplina dei settori speciali a quella dei settori ordinari.

La direttiva 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, invece, disciplina organicamente un settore finora regolato solo in parte (con riguardo ai lavori pubblici) dalla direttiva 2004/18/CE, mentre per l’aggiudicazione delle concessioni di servizi si è fatto ricorso all’applicazione dei principi generali di concorrenza posti dai Trattati UE.

Uno dei principali elementi di novità introdotti dalle direttive riguarda la disciplina dell’in house providing, di cui si definiscono con chiarezza, per la prima volta in un testo normativo, i presupposti e i limiti: questione non di poco conto considerato che l’in house providing comporta la sottrazione dell’impresaall’applicazione delle regole concorrenziali poste dalle direttive.

1. Il quadro giurisprudenziale consolidato

L’istituto dell’in house trae origine in ambito comunitario e si sviluppa per effetto della nutrita elaborazione giurisprudenziale della Cortedi Giustizia dell’Unione Europea[1]: la cd. sentenza Teckal (causa C-107/1998, 18 novembre 1999) ne ha definito i fondamentali tratti distintivi[2].

L’affidamento in house rappresenta per l’ente pubblico una alternativa alla esternalizzazione e alla gestione in economia ed è consentito tutte le volte in cui si decida di affidare la gestione dell’appalto o della concessione, al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti tuttavia caratteristiche tali da poter essere qualificata come «derivazione» o «longa manus» dell’ente affidante.

In base ai cd. requisiti Teckal, in particolare, si è in presenza di un organismo in house, e quindi è consentito procedere in suo favore all’affidamento diretto, quando sussistono tre fondamentali requisiti:

  • la totale partecipazione pubblica del capitale;
  • il cd. controllo analogo;
  • la cd. attività prevalente.

Gli orientamenti più restrittivi richiedono, in aggiunta al requisito della totale partecipazione pubblica, anche lo svolgimento di attività esclusivamente per l’ente di riferimento, ritenendo dunque applicabile alle società in house un vero e proprio divieto di attività extra moenia: secondo il recente Consiglio di Stato infatti «la Corte di giustizia della Unione europea ha statuito che l’attività della società in house pluripartecipate deve essere limitata allo svolgimento dei servizi pubblici nel territorio degli enti pubblici che ne risultino soci (sentenza 10 settembre 2009, C-573/07, Sea, §§ 79 e 80).»(Consiglio di Stato del 14/10/2014 n. 5079). Si è osservato inoltre come un soggetto possa essere considerato in house solo quando l’amministrazione partecipante sia titolare del potere di nomina e revoca «quanto meno della maggioranza dei componenti degli organi di gestione, di amministrazione e di controllo» (Consiglio di Stato del 14/10/2014 n. 5079 e del 13/3/2014 n. 1181)[3].

I requisiti Teckal sono stati più o meno fedelmente recepiti dalle varie direttive comunitarie di settore e, quindi, dalla legislazione nazionale attuativa (si pensi ad esempio, nel settore dei servizi pubblici, all’art. 113 del TUEL, seguito dall’art. 23-bis D.L. 112/08 e quindi dall’art. 4 D.L. 138/2011; quanto alla normativa di settore si pensi al Codice dell’ambiente per il servizio idrico e dei rifiuti; per i trasporti, l’in house è previsto dal Regolamento CE 1370/2007, sebbene non menzionato nelle specifiche disposizioni nazionali di settore).

Nel settore dei servizi pubblici locali, ove la concorrenza stenta ad affermarsi, l’affidamento in house assume rilevanza centrale: con la sentenza della Corte Costituzionale n. 199/2012 sono venute meno, infatti, le norme nazionali che limitavano il ricorso a tale istituto, il quale oggi costituisce una delle legittime (e forse più diffuse) modalità di affidamento, del tutto equiparata all’affidamento tramite procedure concorsuali[4]. L’art. 34 D.L. 179/12 e la cd. Legge di Stabilità 2015, del resto, si limitano a prevedere vincoli di tipo meramente procedurale nell’affidamento del servizio (es. l’obbligo di redigere una relazione motivata), senza tuttavia entrare nel merito della legittimità delle singole forme di affidamento, salva in ogni caso la necessaria conformità all’ordinamento comunitario.

Nel settore dei cd. servizi strumentali, le società in house sono contemplate dall’art. 13 D.L. n. 223/2006, che ad esse fa obbligo di non svolgere attività «extra moenia», ossia in favore di enti diversi da quelli affidanti, e di avere «oggetto sociale esclusivo»[5].

Con le nuove direttive UE in materia di appalti pubblici, settori speciali e concessioni (in vigore dal 17 aprile 2014) la disciplina dell’in house providing, di derivazione giurisprudenziale, trova collocazione in un atto normativo con valenza sovranazionale.

2. La tipizzazione dell’in house nelle direttive

2.1. Le varie tipologie di affidamento diretto

Una delle principali novità delle direttive in esame risiede nell’aver dotato l’istituto dell’in house di una disciplina avente dignità di testo normativo, organico e uniforme, non limitandosi alla mera traduzione normativa dei principi generali enucleati dalla giurisprudenza comunitaria (i cd. requisiti Teckal).

Le nuove direttive propongono un modello di in house providing in parte analogo, in parte innovativo rispetto a quello risultante dalla elaborazione giurisprudenziale sopra descritta.

A variare è, innanzitutto, la terminologia utilizzata per designare l’istituto: il legislatore comunitario non menziona l’in house bensì utilizza la locuzione di «appalti pubblici tra enti nell’ambito del settore pubblico», presente in tutte e tre le direttive.

Si tratta, in particolare, dell’art. 12 della direttiva 2014/24/UE per i settori ordinari, dell’art. 17 della direttiva 2014/23/UE per le concessioni e dell’art. 28 della direttiva 2014/25/UE per i settori speciali: è bene premettere che il contenuto e la struttura delle disposizioni sono sostanzialmente identici sicché, per comodità, ci si limiterà a fare riferimento all’art. 12 della direttiva 2014/24/UE in tema di settori ordinari.

L’attenzione del legislatore comunitario si concentra sulle condizioni in presenza delle quali un dato affidamento si sottrae alla applicazione delle disposizioni della direttiva e quindi all’obbligo della gara per l’affidamento degli appalti e delle concessioni[6]. Dal rispetto di tale condizioni discende ex se la qualificazione di una data una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato come organismo in house. Tali condizioni – che devono ricorrere cumulativamente – sono individuate dalle direttive come segue: 

  1. l’amministrazione aggiudicatrice esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi;
  2. oltre l’80% delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi; e
  3. nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata (v. art. 12, comma 1, cit.).

Il cd. controllo analogo trova quindi finalmente una tipizzazione legislativa: «Si ritiene che un’amministrazione aggiudicatrice eserciti su una persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi ai sensi della lettera a) qualora essa eserciti un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata. Tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione aggiudicatrice.» (v. art. 12, comma 1, cit.)[7]. Tale requisito potrebbe quindi sussistere anche in caso di controllo di «terzo livello»: la legislazione comunitaria, in altri termini, ammette l’affidamento in house «a cascata».

L’affidamento in house può essere altresì disposto in modo «invertito», ossia da parte della stessa persona giuridica controllata (che sia qualificabile come amministrazione aggiudicatrice): tale soggetto può aggiudicare direttamente un appalto o una concessione al proprio ente controllante (anch’esso amministrazione aggiudicatrice) ovvero ad un altro soggetto giuridico controllato dalla propria controllante. Questo schema, nuovo al settore, è consentito solo a condizione che il soggetto al quale viene così affidato l’appalto o la concessione in via diretta sia a totale partecipazione pubblica, ovvero contenga «capitali privati che non comportano controllo o potere di veto prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata» (art. 12, c. 2, cit.).

Le direttive disciplinano, inoltre, quello che in giurisprudenza è stato definito come controllo analogo congiunto o «in house frazionato», già ammesso dalla giurisprudenza comunitaria (v. sentenza Carbotermo del 2006), che ricorre quando l’amministrazione aggiudicatrice esercita congiuntamente con altre amministrazioni aggiudicatrici, sulla persona giuridica di cui trattasi, un controllo analogo a quello che le suddette amministrazioni esercitano sui propri servizi; nella specie:

  1. gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti;
  2. tali amministrazioni aggiudicatrici sono in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica;
  3. la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici controllanti (v. art. 12, c. 3, cit.),

Anche in presenza del cd. controllo congiunto è consentito l’affidamento in house (e quindi la sottrazione alle regole delle direttive) purché ricorrano le condizioni sopra viste:

a)    cd. controllo analogo congiunto;

  • oltre l’80% delle attività di tale persona giuridica siano effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici controllanti o da altre persone giuridiche controllate dalle amministrazioni aggiudicatrici di cui trattasi;
  • nella persona giuridica controllata non vi sia alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata (v. art. 12, c. 3, cit.).

Quanto al requisito della cd. attività prevalente, le direttive fissano una soglia quantitativa (pari all’80%) in tal modo consentendo al soggetto in house di svolgere attività marginali anche «extra moenia», ossia per enti diversi da quelli affidanti, così chiarendo il dibattito apertosi nella giurisprudenza nazionale sul punto.

Il legislatore indica inoltre i criteri per quantificare in concreto tale soglia: a tal fine occorre considerare «il fatturato totale medio, o una idonea misura alternativa basata sull’attività, quali i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice in questione nei campi dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto.». Nel caso in cui, a causa della data di costituzione o di inizio dell’attività del soggetto in questione, ovvero a causa della riorganizzazione delle sue attività, il fatturato – o la misura alternativa basata sull’attività (i costi) del soggetto medesimo – non sia disponibile per i tre anni precedenti o non sia più pertinente, è sufficiente dimostrare, «in base a proiezioni dell’attività, che la misura dell’attività è credibile» (v. art. 12, c. 5, cit.).

Il legislatore individua un’ulteriore fattispecie che, sebbene anch’essa legittimante un affidamento diretto, non costituisce in house providing: si tratta della cooperazione orizzontale tra pubbliche amministrazioni nel settore dei servizi pubblici (ossia di contratti conclusi esclusivamente tra due o più amministrazioni aggiudicatrici, senza il coinvolgimento di un ente che possa considerarsi dalle stesse controllato). In questa ipotesi il servizio può essere affidato direttamente e senza osservanza delle direttive appalti, purché:

  1. il contratto stabilisce o realizza una cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che esse sono tenute a svolgere siano prestati nell’ottica di conseguire gli obiettivi che esse hanno in comune;
  2. l’attuazione di tale cooperazione è retta esclusivamente da considerazioni inerenti all’interesse pubblico;
  3. le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti svolgono sul mercato aperto meno del 20% delle attività interessate dalla cooperazione (v. art. 12, c. 4, cit.)[8].

2.2. L’affidamento a società in house «mista»

Una delle principali novità della disciplina contenuta nelle direttive è senz’altro rappresentata dal «temperamento» del requisito, consolidato nella giurisprudenza nazionale ed europea, della totale proprietà pubblica del capitale della società in house.

La scelta del legislatore comunitario disattende l’iniziale proposta della Commissione Europea, la quale, invece, escludeva in radice il possibile ingresso di privati nell’organismo in house, in rigida applicazione della giurisprudenza Parking Brixen.

L’ammissibilità di una società in house a “parziale” capitale privato si scontra difatti con gli orientamenti consolidati della giurisprudenza, sia comunitaria che nazionale, che pertanto sembra destinata ad essere, almeno in parte, superata dalle nuove direttive.

Stando a tali orientamenti consolidati:

  • il cd. controllo analogo richiede, da un lato, la necessaria partecipazione pubblica totalitaria posto che«la partecipazione, pur minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società, alla quale partecipi anche l’Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi»; dall’altro, richiede la «presenza di strumenti di controllo da parte dell’ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile.» (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 3/3/2008, n. 1; Corte di Giustizia, Grande sezione, 8/4/2008, n. 337 e 11/1/2005, C-26/03, Stadt Halle, secondo cui la partecipazione privata al capitale di una società pubblica comporta una deviazione rispetto al fine pubblico cui questa dovrebbe tendere e, al contempo, un indebito beneficio concorrenziale per il socio privato conseguente agli affidamenti disposti in via diretta dall’amministrazione partecipante);
  • inoltre, «… non deve essere statutariamente consentito che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati; il consiglio di amministrazione della società deve essere privo di rilevanti poteri gestionali; all’ente pubblico controllante deve essere consentito l’esercizio di poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale; l’impresa non deve acquisire una vocazione commerciale che renda precario il controllo dell’ente pubblico, con la conseguente apertura obbligatoria della società ad altri capitali, fino all’espansione territoriale dell’attività a tutta l’Italia e all’estero; le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante, e della cd. “destinazione prevalente dell’attività” (cioè il rapporto di stretta strumentalità fra le attività dell’impresa e le esigenze pubbliche che l’ente controllante è chiamato a soddisfare), l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’Amministrazione controllante, ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’Amministrazione stessa (TAR Puglia – Bari 2 aprile 2013 n 458). Al contrario, per escludere radicalmente ogni possibilità di legittimo affidamento “in house” è, infatti, sufficiente che vi sia, sebbene in minima percentuale, una partecipazione privata al capitale sociale» (TAR Friuli del 4.12.2014 n. 629).

Secondo un orientamento più cauto, la presenza dei soci privati viene considerata ostativa all’affidamento diretto solo se la partecipazione sussista al momento della stipula del contratto: solo cioè se vi è un’effettiva prospettiva di ingresso di soggetti privati nella compagine sociale; il principio di certezza del diritto esigerebbe di valutare la legittimità dell’affidamento in house sulla base della situazione vigente al momento della deliberazione dell’ente locale affidante (Corte di Giustizia, 10/9/2009, C-371/05 e C-573/07 SEA). Il giudice europeo osserva come l’eventuale successiva apertura ai privati del capitale sociale «… costituirebbe un cambiamento di una condizione fondamentale dell’appalto che necessiterebbe di un’indizione di gara».

Le nuove direttive sembrano temperare questi orientamenti, consentendo, sia pure in via di eccezione, «forme di partecipazione di capitali privati» a condizione che:

1) non comportino «controllo o potere di veto»,

2) siano «prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati»,

3) non esercitino«un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata»  (v. art. 12 cit.).

E’ vero che, in via di principio, la sottrazione alle regole di concorrenza «non dovrebbe estendersi alle situazioni in cui vi sia partecipazione diretta di un operatore economico privato al capitale della persona giuridica controllata poiché, in tali circostanze, l’aggiudicazione di un appalto pubblico senza una procedura competitiva offrirebbe all’operatore economico privato che detiene una partecipazione nel capitale della persona giuridica controllata un indebito vantaggio rispetto ai suoi concorrenti(v. Considerando n. 32). Come si legge nelle direttive, tuttavia,la scelta di estendere il modello in house anche a soggetti societari misti, aventi cioè capitale, sia pure in minima percentuale, privato, deve ritenersi giustificata in tutti queicasi in cui «la partecipazione di determinati operatori economici privati al capitale della persona giuridica controllata è resa obbligatoria da una disposizione legislativa nazionale in conformità dei trattati,» date «le particolari caratteristiche degli organismi pubblici con partecipazione obbligatoria, quali le organizzazioni responsabili della gestione o dell’esercizio di taluni servizi pubblici»[9] (v. Considerando n. 32 cit.). Un fondamentale limite al modello dell’in house misto è quindi rappresentato dalla  esistenza di una espressa disposizione di legge nazionale (escluse dunque le previsioni normative regionali) che contempli la società come soggetto a necessario capitale misto (ad esempio, quale «ente pubblico economico»). La sussistenza di una legge nazionale che preveda come obbligatoria la compartecipazione privata al capitale di un dato soggetto non è tuttavia condizione sufficiente affinché sia legittimo il ricorso all’affidamento in house. A tal fine la Direttiva richiede infatti che la partecipazione privata sia marginale e priva di rilevanza ossia non idonea a comportare «controllo o potere di veto» ovvero «un’influenza determinante sulle decisioni della persona giuridica controllata.». La questione è che – a differenza di quanto avvenuto per la cd. attività prevalente quantificata in base al fatturato (80%) – il legislatore comunitario non «quantifica» l’influenza da considerarsi «determinante», in presenza della quale la partecipazione privata non è (più) consentita presumibilmente per evitare forme elusive del vincolo e incentivare invece una verifica del requisito di tipo sostanziale.

Non appaiono più molto chiari i confini tra il nuovo schema di in house «misto» e il modello di partenariato pubblico-privato, in cui la scelta del socio – cui viene affidato contestualmente i servizio – avviene tramite una procedura ad evidenza pubblica. In quest’ultimo modello, il socio deve necessariamente avere carattere «operativo» (e non meramente finanziario) proprio in vista dello sviluppo industriale della società. Nella nuova società in house, quale sarà il ruolo che svolgerà il privato?

Le direttive UE non si limitano a tradurre i cd. requisiti Teckal, ma li specificano e, in parte, stravolgono, prevedendo la possibilità, a certe condizioni, di affidamento in house in favore di società a capitale «misto» pubblico-privato.

3. Le nuove direttive nella giurisprudenza nazionale

Trattandosi di norme di recente emanazione e non ancora efficaci nell’ordinamento interno, non sono affatto numerose le pronunce giurisprudenziali che hanno fatto applicazione delle nuove direttive.

Gli orientamenti consolidati in tema di in house vengono così riaffermati dalla recente sentenza del TAR Friuli del 4.12.2014 n. 629, riguardante la legittimità dell’affidamento diretto del servizio di raccolta rifiuti in favore di una società mista (partecipata da capitale privato). Tale pronuncia non entra nel merito della interpretazione delle disposizioni europee in quanto al momento non efficaci nell’ordinamento interno.

In particolare, il TAR ritiene non ancora applicabile la nuova direttiva in tema di concessioni sostenendo che: «La nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE, che sul punto ammette in talune ipotesi la partecipazione indiretta dei privati alle società in house, non risulta ancora recepita dagli Stati membri, né essa si può considerare self executing, sia per la sua natura, che richiede un recepimento e adattamento a livello nazionale, sia perché non è ancora scaduto il termine per il recepimento stesso».

La direttiva – a differenza dei regolamenti comunitari direttamente applicabili – non è self executing e pertanto, fintantoché non sarà recepita dall’ordinamento interno, non può trovare applicazione.

Nel caso di specie, pertanto, ad avviso del TAR, la mera presenza di quote azionarie private nel capitale della società «comporta che essa non può essere considerata una società di “in house providing”»: risulta dunque illegittima la delibera di affidamento del servizio alla società in questione. Il TAR precisa che nessun rilievo può essere in contrario attribuito alla circostanza che la società sia definita dalla normativa regionale quale ente pubblico economico. La sentenza ritiene dunque ancora pienamente vincolante l’orientamento restrittivo consolidatosi nella giurisprudenza nazionale in tema di in house, fintantoché non saranno recepite le nuove direttive, al contempo, quindi, facendone presagire il superamento.

4. Conclusioni

La disciplina dell’in house nelle nuove direttive non sembra porre sostanziali problemi di compatibilità con l’attuale legislazione statale. L’affidamento in house è infatti riconosciuto nell’ordinamento nazionale come pienamente legittimo, in omaggio al principio di «neutralità» della scelta della forma di affidamento, caro alla normativa Ue. Tale principio trova piena conferma nelle nuove direttive, ove si legge che «nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva.» (Considerando n. 5) e che «la presente direttiva … non dovrebbe neppure trattare la liberalizzazione di servizi di interesse economico generale, riservati a enti pubblici o privati, o la privatizzazione di enti pubblici che forniscono servizi.» (Considerando n. 6)[10].

Perplessità semmai potrebbero sorgere qualora il legislatore nazionale, con una normativa restrittiva, imponesse l’obbligo della gara quale unica modalità di affidamento dei servizi e, per l’effetto, il divieto di ricorso all’affidamento in house[11].

Ad esempio, nel settore del trasporto pubblico locale il Regolamento CE 1370/2007, in conformità alle nuove direttive UE, prevede sì la piena equivalenza tra l’affidamento in house e l’affidamento con gara, ma fa comunque salva la diversa volontà del legislatore nazionale[12]; inoltre, diverse leggi regionali di settore impongono agli enti affidanti il ricorso alla gara quale unica modalità di affidamento dei servizi. La giurisprudenza costituzionale, al riguardo, sembra essersi assestata sul principio secondo cui l’ordinamento interno ben può porre vincoli all’affidamento in house, legiferando in modo più restrittivo rispetto all’ordinamento comunitario, purché in funzione pro concorrenziale[13]. Sarebbe quindi legittimo un eventuale divieto di affidamento in house alla luce delle nuove direttive?

Inoltre, la sottrazione della società in house alla concorrenza ha come ratio la circostanza che la medesima società agisca quale longa manus dell’ente sì da non potersi considerare al pari di una impresa privata, avente vocazione commerciale. Nel momento in cui si consente, sia pure in via di eccezione, l’affidamento diretto in favore di società aventi ex lege capitale misto, oltre ad aversi uno sconfinamento nel diverso fenomeno del partenariato, ci si troverebbe di fronte al rischio che la società in house persegua scopi commerciali con deviazione dai fini pubblici, rischio, questo, tanto temuto dalla Corte di Giustizia, che per tale ragione ha da sempre ritenuto fondamentale il requisito della totale proprietà pubblica del capitale (sentenza 8/4/2008, n. 337). Se così è, come giustificare la sottrazione del modello alle regole del mercato e – nei casi in cui la società in house possa partecipare a gare extra bacino – la disparità di trattamento che ne deriva rispetto agli altri operatori? 

Come sentenzia il Giudice costituzionale, «Il modello operativo dell’in house non deve costituire il mezzo per consentire alle autorità pubbliche di svolgere, mediante la costituzione di apposite società, attività di impresa in violazione delle regole concorrenziali, che richiedono che venga garantito il principio del pari trattamento tra imprese pubbliche e private»[14].


[1] La locuzione in house contract compare nel Libro Bianco adottato nel 1998 dalla Commissione Europea in riferimento agli appalti «aggiudicati all’interno della Pubblica Amministrazione, ad esempio tra Amministrazione centrale e locale o, ancora, tra una Amministrazione ed una società interamente controllata. ». La nozione in parola sin da allora identificava la modalità di autoproduzione di beni, servizi o lavori da parte della Pubblica Amministrazione ossia la facoltà dell’Amministrazione, senza ricorrere a terzi tramite una gara ad evidenza pubblica, di acquisire un bene o un servizio o far svolgere un lavoro per mezzo di risorse interne alla propria organizzazione. La giurisprudenza ha quindi definito i tratti dell’istituto, ravvisandolo «…solo nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti che la controllano… » (sentenza Teckal, Corte di Giustizia, 18/11/1999, causa C-107/98).

[2]V. Considerando n. 31 della direttiva 2014/24/UE, ove si riconosce che «Vi è una notevole incertezza giuridica circa la misura in cui i contratti conclusi tra enti nel settore pubblico debbano essere disciplinati dalle norme relative agli appalti pubblici. la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea viene interpretata in modo divergente dai diversi Stati membri e anche dalle diverse amministrazioni aggiudicatrici. E’ pertanto necessario precisare in quali casi i contratti conclusi nell’ambito del settore pubblico non sono soggetti all’applicazione delle norme in materia di appalti pubblici». Cfr. Claudio Contessa, L’in house providing quindici anni dopo: cosa cambia con le nuove direttive in  www.giustizia-amministrativa.it

[3] L’orientamento in oggetto è stato altresì affrontato, in modo pressoché analogo, dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza 24/10/2014 n. 22609. La Suprema Corte riconosce la giurisdizione contabile relativamente alla azione – esercitata dalla Procura della Repubblica – volta a far valere la responsabilità degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio di una società in house «così dovendosi intendere quella costituita da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente i medesimi enti possano essere soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggetta a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici».

[4] Come ribadito dalla recente giurisprudenza amministrativa, infatti, «i servizi pubblici locali di rilevanza economica possono in definitiva essere gestiti indifferentemente mediante il mercato (ossia individuando all’esito di una gara ad evidenza pubblica il soggetto affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato pubblico – privato (ossia per mezzo di una società mista e quindi con una ‘gara a doppio oggetto’ per la scelta del socio o poi per la gestione del servizio), ovvero attraverso l’affidamento diretto, in house …» (Consiglio di Stato 10/9/2014 n. 4599). L’affidamento diretto/in house – ribadisce il Consiglio di Stato – non si configura come un’ipotesi eccezionale e residuale di gestione dei servizi (come avveniva ai tempi dell’art. 23-bis e poi dell’art. 4 cit.), rientrando invece in una delle (tre) normali forme organizzative delle stesse, con la conseguenza che «la decisione di un ente in ordine alla concreta gestione dei servizi pubblici locali, ivi compresa quella di avvalersi dell’affidamento diretto, in house (sempre che ne ricorrano tutti i requisiti così come sopra ricordati e delineatisi per effetto della normativa comunitaria e della relativa giurisprudenza), costituisce frutto di una scelta ampiamente discrezionale, che deve essere adeguatamente motivata circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano e che, come tale, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non sia manifestamente inficiata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità ed arbitrarietà ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti» (Consiglio di Stato 30/9/2013, n. 4832; 11/2/2013, n. 762).

[5] L’art. 13 cit. così recita: «Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del  mercato e di assicurare la  parità degli operatori nel territorio nazionale, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività’  di  tali  enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali …, devono operare con gli enti costituenti o  partecipanti  o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, ne’ in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti aventi sede nel territorio nazionale. … 2. Le società di cui al comma 1 sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1.».

[6] V. art. 17 della direttiva 2014/23/UE «Una concessione aggiudicata da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato non rientra nell’ambito di applicazione della presente direttiva quando siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni: …» (in senso analogo l’art. 12 della direttiva 2014/24/UE e l’art. 28 della direttiva 2014/25/UE).

[7]Come affermato dal giudice europeo, il controllo analogo sul soggetto comporta «un controllo che consente all’autorità pubblica concedente di influenzarne le decisioni. Deve trattarsi di una possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti» (Corte di Giustizia, 13/10/2005, in causa C-458/03, Parking Brixen).

[8] In proposito, al Considerando n. 33 della direttiva 2014/24, si legge che «Le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero poter decidere di fornire congiuntamente i rispettivi servizi pubblici mediante cooperazione senza essere obbligate ad avvalersi di alcuna forma giuridica in particolare. Tale cooperazione potrebbe riguardare tutti i tipi di attività connesse alla prestazione di servizi e alle responsabilità affidati alle amministrazioni partecipanti o da esse assunti, quali i compiti obbligatori o facoltativi di enti pubblici territoriali o i servizi affidati a organismi specifici dal diritto pubblico. I servizi forniti dalle diverse amministrazioni partecipanti non devono necessariamente essere identici; potrebbero anche essere complementari. I contratti per la fornitura congiunta di servizi pubblici non dovrebbero essere soggetti all’applicazione delle norme stabilite nella presente direttiva, a condizione che siano conclusi esclusivamente tra amministrazioni aggiudicatrici, che l’attuazione di tale cooperazione sia dettata solo da considerazioni legate al pubblico interesse e che nessun fornitore privato di servizi goda di una posizione di vantaggio rispetto ai suoi concorrenti. Al fine di rispettare tali condizioni, la cooperazione dovrebbe fondarsi su un concetto cooperativistico. Tale cooperazione non comporta che tutte le amministrazioni partecipanti si assumano la responsabilità di eseguire i principali obblighi contrattuali, fintantoché sussistono impegni a cooperare all’esecuzione del servizio pubblico in questione. Inoltre, l’attuazione della cooperazione, inclusi gli eventuali trasferimenti finanziari tra le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti, dovrebbe essere retta solo da considerazioni legate al pubblico interesse.».

[9] Al Considerando 31 della Direttiva 2014/24 si legge tuttavia che occorre «… garantire che una qualsiasi cooperazione pubblico-pubblico esentata non dia luogo a una distorsione della concorrenza nei confronti di operatori economici privati nella misura in cui pone un fornitore privato di servizi in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti.».

[10] V. art. 2 Direttiva 2014/24: «Dette autorità possono decidere di espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o di conferirli a operatori economici esterni»

[11] Certo tale possibilità, almeno nel settore dei servizi pubblici, al momento pare remota stante il divieto stabilito dalla Corte Costituzionale di ripristinare la normativa abrogata (v. sentenza n. 199/2012). Ma non va comunque esclusa la possibilità di una norma nazionale che ponga vincoli allo strumento in house ulteriori rispetto a quelli comunitari.

[12] Si consideri che l’art. 5, par. 2, del cit. Regolamento consente, ben prima delle direttive in esame, l’affidamento in house anche in favore di società  parzialmente partecipate da privati.

[13]V. sentenza n. 325/2010 in cui si riconosce la legittimità di norme nazionali che pongano «limitazioni dell’affidamento diretto più estese di quelle comunitarie»; tuttavia la sentenza n. 199/2012 non si espone parlando di «normativa comunitaria, che consente, anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010), la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE)».

[14] Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 439.

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Francesca Scura
Avv. Francesca Scura
Avvocato amministrativista, esperto in contrattualistica pubblica
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