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Il caos domina le relazioni internazionali. I conflitti si allargano. Il rischio di esserne coinvolti aumenta. Uno scenario che ha indotto i membri della NATO a cogliere la proposta del presidente statunitense Donald Trump: aumentare la spesa militare al 5% del PIL entro il 2035.

La politica ovviamente si spacca tra chi avrebbe voluto che non fossero distratte risorse da emergenze come la salute, l’istruzione e il welfare e chi ritiene che il Paese non può non dotarsi di un sistema di difesa adeguato con i tempi. Ci sono carenze che non possono essere taciute nella difesa aerea e nei mezzi di terra.

L’opinione pubblica italiana preferirebbe che tali risorse fossero destinate verso settori critici, necessari per i cittadini. Lo rivela un sondaggio europeo curato dall’European Council of Foreign Relations che ha intervistato 16.400 soggetti in tutta Europa. Gli italiani sono i soli europei a dichiararsi contrari al “riarmo”. Un risultato indice dello stato di sofferenza in cui vertono quei servizi fondamentali già citati sopra.

Ma l’impegno è stato assunto e va onorato. Così, l’Italia dovrà aumentare la spesa per difesa e sicurezza dagli attuali 46 miliardi di euro annui a 110 miliardi. Per la Premier Giorgia Meloni l’accordo è sostenibile e non si discosta drasticamente da quelli che sono gli attuali impegni che l’Italia ha assunto in ambito di investimenti militari. Si tratterebbe di passare dall’attuale 2% del PIL al 3,5%. Il restante 1,5% che porta la spesa concordata fino al 5% non è strettamente connesso alla spesa militare ma comprende un paniere di servizi e infrastrutture per le quali si sarebbe dovuti in ogni caso prevedere degli investimenti: reti elettriche e gasdotti, telecomunicazioni, ospedali, mobilità militare e sicurezza.

Sull’argomento si espresso il Generale Luciano Portolano in un’intervista rilasciata al IlSole24Ore, affermando che “un maggiore impegno della nazione in termini economici deve essere letto come un investimento per tutto il Paese”. La tesi era già stata enunciata dal Ministro della Difesa Guido Crosetto nel corso di un question time al Senato nel mese di marzo. Gli investimenti nella difesa hanno un effetto moltiplicatore che va dal 2,8 al 3% aveva detto Crosetto. Un effetto propulsivo per la crescita che però egli stesso vincola a dei “se”: “se entra nella difesa, se rimane sul territorio italiano, se in qualche modo c’è una ricaduta per piccole, medie e grandi imprese”. Effetti benefici si, ma se le armi e le attrezzature belliche di cui necessitiamo sono prodotti in casa nostra. Ma gli armamenti di cui necessita l’Italia (difesa aerea e mezzi di terra) non sono industrializzati dalle nostre imprese. Si tratterebbe fondamentalmente di prodotti di importazione derivanti da Stati Uniti e Israele. Di qui il sospetto che la strategia militare di Trump sia di facciata e serva per mascherare una politica a vantaggio di imprese “amiche”. Su questo fronte, che gli accordi NATO siano uno stimolante per l’economia resta nel dubbio.

Se dalle giornate dell’Aia vogliamo trovare un concreto effetto positivo in termini di crescita economica, dobbiamo soffermarci su quell’1,5% che esula da una spesa prettamente “bellica” e si riferisce a infrastrutture critiche, mobilità militare, cybersicurezza. In questo pacchetto di opere potrebbero rientrare porti, aeroporti, strade. Si vocifera che potrebbe essere incluso il “famigerato” ponte sullo stretto di Messina. Potrebbero rientrare infrastrutture come basi militari e centri di addestramento. In sostanza, opere pubbliche “classiche”. Sulla fruttuosità degli investimenti in questa direzione c’è più certezza. Le ricadute positive sull’economia sono note: ogni euro speso in appalti pubblici può arrivare a generare 2,5 euro. Un calcolo in cui rientrano non solo i vantaggi di cui beneficiano le imprese che si aggiudicheranno i lavori e i loro dipendenti, ma l’intera comunità. La realizzazione di infrastrutture legate alla mobilità, ad esempio, è un beneficio per interi territori e per le comunità che li abitano. Il ponte sullo Stretto faciliterebbe la circolazione militare ma anche e soprattutto quella civile.

Viviamo una pagina di storia fatta di una grave instabilità. Ci conviviamo da qualche anno e pare siamo destinata a subirne le conseguenze per tanto tempo ancora. Perché? Perché le risorse scarseggiano e ogni paese nella sua egocentrica missione vuole averne sempre di più. In cambiamenti climatici renderanno sempre più grave la situazione. Ogni guerra è riconducibile a questioni economiche, all’annessione di terre ricche di materie prime, al controllo di punti strategici per il trasporto delle merci. La religione, la lingua, l’etnia sono alibi. “È veramente triste assistere oggi in tanti contesti all’imporsi della legge del più forte, in base alla quale si legittimano i propri interessi”, ha affermato papa Leone XIV.

“Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo” aveva detto Papa Francesco prima della sua morte. E invece, caro Francesco, stiamo lavorando per l’esatto contrario. “Si vis pacem, para bellum” ha citato la premier Giorgia Meloni in Senato. Siamo scivolati inesorabilmente in una “politica della guerra” contrapposta a quella che lo scrittore saggista e politico Giulio Marcon, nell’ebook di GreePeace “Economia a Mano Armata” definisce “politica della pace”, basata “sul disarmo, sulla prevenzione dei conflitti, sulla cooperazione internazionale, sulla democrazia internazionale ed il ruolo degli organismi sovranazionali, su un’economia di giustizia e l’eguaglianza”. Sperperiamo capitali per incutere paura a possibili aggressori, arricchiamo i fabbricanti di armi e sottraiamo risorse al bene comune. Ah, quante opere pubbliche potremmo realizzare, quanto lavoro e benessere potremmo incentivare, se non dovessimo finanziare questo sconsiderato risiko.

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Dott. Enzo de Gennaro
Direttore Responsabile