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Tutti commettiamo errori. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” annunciava Gesù secondo il Vangelo di Giovanni. Uno sbaglio può essere piccolo, innocuo, oppure grave e nocivo. I primi si risolvono con scuse e strette di mano. I secondi con denunce, tribunali e condanne, fino al carcere. Nella tradizione giuridica italiana la detenzione è un periodo di tempo durante il quale il detenuto deve essere accompagnato in un percorso riabilitativo. L’articolo 27 della Costituzione introduce il fine di “tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere non come punto di arrivo. Una fine. Ma come una seconda possibilità. Un luogo dal quale poter ricominciare. Un secondo grembo materno. Il corpo del nascituro, nel ventre della madre, cresce e si forma per poter essere pronto alla vita. Il percorso di una persona in carcere dovrebbe essere qualcosa di simile. Una gestazione durante la quale aiutare qualcuno a crescere per prepararsi a una nuova vita, tramettendo conoscenze culturali, competenze lavorative, socialità.

Sappiamo che nulla di questo è vero. Non lo è per una grande parte della popolazione carceraria. Non lo si riesce a garantire. Mancano i presupposti perché si possa avverare. Presupposti strutturali: il sovraffollamento rende il carcere un luogo che rischia di incattivire chi ci deve vivere senza poter usufruire di uno spazio vitale dignitoso e in buone condizioni igieniche. Presupposti culturali e sociali: le scarse occasioni di acquisire conoscenze e professionalità, tramite progetti di formazione, fanno decadere quel nobile ruolo riabilitativo delle carceri.

In Italia, oggi, si contano 197 istituti penitenziari. Un numero che sarebbe destinato a crescere se si arrivasse a concretizzare quei progetti che, su tutto il territorio nazionale, sono in attesa di essere approvati, appaltati o semplicemente cantierizzati. In lista ci sono, tra gli altri, i nuovi istituti di Savona e Nola, ma anche progetti di ampliamento e riqualificazione come previsto per Brescia e Udine.

Nella situazione fotografata il 30 aprile del 2022, sulla base dei dati ufficiali del Ministero della Giustizia, nelle carceri italiane ci sono 54.595 detenuti al cospetto dei 50.853 posti disponibili. Il tasso di sovraffollamento è del 107,35% con picchi del 150% nel carcere di Latina e del 190% nel San Vittore di Milano.

“Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, affermava lo scrittore russo Fedor Dostoevskij. In molte, tante carceri italiane, non si riescono a garantire i 3mq calpestabili per persona all’interno delle celle. Una situazione che posiziona il nostro paese tra quelli meno civilizzati in ambito europeo. E non è solo questione di spazi. La torrida estate che ci stiamo per lasciare alle spalle ha fatto emergere gravi mancanze strutturali che hanno aggravato la percezione della calura all’interno degli istituti penitenziari. Non a caso, “La calda estate delle carceri” è il titolo del rapporto di metà anno redatto dall’associazione Antigone.

Caldo e sovraffollamento acuiscono la criticità della vita in carcere. Il regolamento penitenziario datato 2000 prevedeva che entro il 20 settembre 2005 ci sarebbe dovuta essere una doccia in ogni cella. E invece, “nel 58% delle carceri visitate c’erano celle senza la doccia per garantire igiene e refrigerio”, si legge nel rapporto. Si è provato ad alleviare gli effetti del caldo con la possibilità dei carcerati di poter acquistare ventilatori tramite il sistema di spaccio interno alle carceri chiamato sopravvitto, ma non tutti i carcerati hanno disponibilità economiche per poterne acquistare uno e non tutte le carceri hanno la possibilità di poterli far funzionare. Nelle celle del carcere di Bolzano, ad esempio, mancano prese e interruttori.

“Tenere delle persone in queste condizioni – ha detto Elena Dondio, Garante per i diritti dei detenuti di Bolzano – non può che renderle ancora più fragili una volta che saranno fuori”. È questo il punto di arrivo. Coincide con il punto dal quale avevamo preso le mosse: garantire a chi vive in regime di restrizione una qualità di vita dignitosa, nella quale trovare lo slancio per imboccare strade diverse da quelle che li hanno condotti negli istituti penitenziari. Chi è “dentro”, lo è perché in qualche modo non ha riconosciuto i valori della società. A volte, probabilmente, non ha nemmeno avuto l’opportunità di conoscerli. Spesso, quasi sempre, si delinque come conseguenza di un disagio.

Il carcere ha il dovere e la nobile aspirazione di prendersi cura dei suoi ospiti. Di assolvere al ruolo educativo della società che per lo psicologo e filosofo tedesco Erich Fromm non deve limitarsi all’età dell’infanzia ma proseguire anche a favore “degli adulti di ogni età”. Per poter far questo ogni carcere dovrebbe garantire standard di vita dignitosi. È qualcosa che ci riguarda. Che tocca anche chi resta fuori. Il reinserimento nella società di chi ha scontato la pena è un successo non solo per il singolo ma per tutta la comunità. Carceri sovraffollate, prive dei servizi essenziali, nelle quali, spesso, non sono garantiti i diritti fondamentali dell’uomo, non sono il luogo idoneo per avviare quei percorsi di reinserimento che sono fatti prima di tutto di buoni esempi e di un ambiente che avvalori le belle parole.

Nel PNRR sono previsti fondi per 132,9 milioni di euro da investire in appalti per la realizzazione di nuove carceri e il miglioramento delle condizioni di quelli esistenti. Somma che dovrà essere spesa tra l’anno in corso e il 2026. Altri 200 milioni di euro, derivanti da altre forme di finanziamento, sono già stati stanziai per il recupero di posti inagibili nelle carceri di Taranto, Sulmona e Cagliari.

Avviare gare d’appalto per migliorare le condizioni della vita carceraria. È per questa via che si può arrivare alla tutela dei diritti in carcere, a un processo di integrazione scevro dalle contaminazioni di un ambiente ostile che rischiano di allontanare invece che avvicinare i detenuti alla socialità, esponendoli a una recidiva nel commettere reati.

Nel 2012 una Commissione straordinaria, istituita presso il Senato della Repubblica, si era occupata della tutela e la promozione dei diritti umani, pubblicando un lavoro dal quale emerge la volontà di dare seguito al monito di Dostoevskij. Migliorare le condizioni delle prigioni per migliorare l’intera società. Non è un lavoro semplice. Non è una missione che tutti possono comprendere senza sollevare dubbi. “Nelle carceri – si legge nel rapporto – non ci si occupa dei diritti dei buoni ma di quelli dei cattivi, non di quelli degli innocenti ma di quelli dei colpevoli. E non è così facile, né per noi stessi né per gli altri, capire che anche in questo modo si difendono i diritti di tutti, si afferma lo stato di diritto, si rende più matura e migliore la nostra democrazia”.

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Dott. Enzo de Gennaro
Direttore Responsabile
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