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  1. L’applicabilità dell’articolo 2049 cc alla Pubblica amministrazione

Del resto, più non osta all’applicabilità dell’art. 2049 cod. civ. l’originaria sua ricostruzione come estrinsecazione di una colpa in eligendo vel in vigilando, la quale sarebbe esclusa in tesi nel rapporto organico in forza della predeterminazione normativa dei criteri di selezione e di un sistema pubblicistico di controlli, entrambi estrinsecazione di poteri discrezionali: infatti, la norma in esame prescinde, nella sua corrente ricostruzione, da ogni profilo di colpa.

Nemmeno l’ontologica differenza tra rapporto di preposizione institoria e rapporto organico tra Stato od ente pubblico e suo funzionario o dipendente osta alla generalizzazione del principio dell’art. 2049 cod. civ., poiché questo è solamente espressione di un generale criterio di imputazione di tutti gli effetti, non solo favorevoli ma anche pregiudizievoli, dell’attività non di diritto pubblico dei soggetti di cui ci si avvale; e che la P.A. possa rivestire la qualità di parte lesa nel procedimento penale avente ad oggetto la condotta del dipendente infedele non muta la responsabilità della prima nei confronti dei terzi, soltanto rilevando nei rapporti interni con quello.

Ancora, solo in caso di responsabilità indiretta è pienamente coerente col sistema generale (se non derogato da discipline speciali) di imputazione, nei rapporti interni, del carico dell’obbligazione risarcitoria l’attribuzione (talora normativamente prevista: v. ad es. l’art. 22, cpv., del richiamato d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3) di questo per intero al dipendente colpevole (in armonia con il sistema appunto di cui all’art. 2049 cod. civ.: da ultimo, Cass. 05/07/2017, n. 16512), salva per quest’ultimo la prova della colpa pure dell’amministrazione.

1.1 L’occasionalità necessaria

Alla puntualizzazione dell’ambito di operatività del criterio di imputazione ricondotto ai principi dell’art. 2049 cod. civ. va premesso un richiamo ai principi in tema di causalità nel diritto civile.

A partire dalla fondamentale elaborazione di queste Sezioni Unite di cui alle sentenze nn. 576 ss. del dì 11/01/2008 (alla cui  -21- esauriente motivazione, tuttora valida e meritevole di piena condivisione, qui basti un richiamo), ai fini della definizione della causalità materiale nell’ambito della responsabilità extracontrattuale va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).

Tuttavia, il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 cod. pen. (per il quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale), trova un temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della medesima disposizione, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se quest’ultima risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle regolari linee di sviluppo della serie causale già in atto.

Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione per dar luogo ad una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex ante idonee a determinare l’evento secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale: quest’ultima, a sua volta, individua come conseguenza normale imputabile quella che – secondo l’id quod plerumque accidit e così in base alla regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante – integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento originario (ivi compresa la condotta umana), che ne costituisce l’antecedente necessario e sufficiente. E, sempre secondo i citati precedenti di queste Sezioni Unite, la sequenza costante deve essere prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell’agente, ma in base alle regole statistiche o scientifiche (se non proprio, in sostanza, di empiria reiterata e verificata) e quindi per così dire oggettivizzate, da cui inferire un giudizio di probabilità di verificazione dell’evento.

Il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione ex ante, diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del danno ed evento dannoso (nesso causale), da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale va più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo dell’illecito (la colpevolezza), ove questo per l’ordinamento rilevi; ma non potendo escludersi una loro efficienza peculiare nel senso dell’elisione, a certe condizioni, del nesso causale tra l’illecito ed il danno, come precisato dalle sezioni semplici di questa Corte (su cui vedi, per tutte, Cass. ord. 01/02/2018, nn. 2478, 2480 e 2482). 51.

Non è questa la sede per esaminare le differenze tra causa ed occasione o concausa, né per sanare la contradictio in adiecto della nozione di occasionalità necessaria: infatti, basta qui rilevare che questa coinvolge una peculiare specie di relazione di causalità, visto che, nella concreta elaborazione che finora se ne è operata e con le precisazioni di cui appresso, una tale occasionalità necessaria si identifica con quella peculiare relazione tra l’uno e l’altro tale per cui la verificazione del danno-conseguenza non sarebbe stata possibile senza l’esercizio dei poteri conferiti da altri, che assurge ad antecedente necessario anche se non sufficiente; ma qui va affermata la necessità che tale valutazione di impossibilità sia operata in base ai principi della causalità adeguata appena riassunti e così ad un giudizio controfattuale, oggettivizzato ex ante, di regolarità causale atta a determinare l’evento, vale a dire di normalità – in senso non ancora giuridico, ma naturalistico-statistico – della sua conseguenza.

Ne consegue che il preponente pubblico, con tale espressione potendo descrittivamente identificarsi lo Stato o l’ente pubblico nella fattispecie di interesse, risponde del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l’esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici: e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell’agente (non potendo dipendere il regime di oggettiva responsabilità dalle connotazioni dell’atteggiamento psicologico dell’autore del fatto), ma in relazione all’oggettiva destinazione della condotta a fini diversi da quelli istituzionali o – a maggior ragione – contrari a quelli per i quali le funzioni o le attribuzioni o i poteri erano stati conferiti.

La conseguenza è l’integrale applicazione della disciplina della responsabilità extracontrattuale, che implica a sua volta un’adeguata delimitazione di tale conclusione:

In primo luogo, valgono i principi e le regole in tema di accertamento del nesso causale secondo le regole sopra ricordate;

In secondo luogo, vige l’elisione del nesso in ipotesi di fatto naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sé solo idoneo a determinare l’evento;

In terzo luogo, si applica la regola generale dell’art. 1227 cod. civ. in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato (su cui v., tra le altre, le già richiamate Cass. ord. nn. 2478, 2480 e 2482 del 2018).

Soprattutto, però, è insito nel concetto stesso di causalità adeguata che la sequenza tra premesse e conseguenze sia rigorosa e riferita a quelle tra queste che appaiano, con giudizio controfattuale di oggettivizzazione ex ante della probabilità o di regolarità causale, come sviluppo non anomalo, anche se implicante violazioni o deviazioni od eccessi in quanto anch’esse oggettivamente prevenibili, di attività rese possibili solo da quelle funzioni, attribuzioni o poteri.

Intanto può giustificarsi, infatti, la scelta legislativa di far carico al preponente degli effetti delle attività compiute dai preposti, in quanto egli possa raffigurarsi ex ante quali questi possano essere e possa prevenirli o tenerli in adeguata considerazione nell’organizzazione della propria attività quali componenti potenzialmente pregiudizievoli: e quindi in quanto possa da lui esigersi di prefigurarsi gli sviluppi che possono avere le regolari (in quanto non anomale od oggettivamente improbabili) sequenze causali dell’estrinsecazione dei poteri (o funzioni o attribuzioni) conferiti al suo preposto, tra i quali rientra la violazione aperta del dovere di ufficio la cui cura è stata affidata, non per nulla quello essendo circondato di garanzie o meccanismi di salvaguardia anche interni alla stessa organizzazione del preponente (come rileva Cass. pen. n. 13799 del 2015 cit.).

Ne deriva che quest’ultimo andrà esente dalle conseguenze dannose di quelle condotte, anche omissive, poste in essere dal preposto in estrinsecazione dei poteri o funzioni o attribuzioni conferiti, che fosse inesigibile prevenire o raffigurarsi oggettivamente come sviluppo non anomalo, secondo un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante, di quell’estrinsecazione, quand’anche distorta o deviata o vietata: in tanto assorbita od a tanto ricondotta, almeno quanto alla sola qui rilevante fattispecie dei danni causati dall’illecito del pubblico funzionario, ogni altra conclusione sull’occasionalità necessaria, tra cui l’estensione alla mera agevolazione della commissione del fatto.

 1.2. Sintesi

Per sintetizzare quanto fin qui esposto, occorre dunque postulare una natura composita della responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico per il fatto illecito del dipendente o funzionario, per applicare i principi della responsabilità indiretta elaborati per l’art. 2049 cod. civ. all’attività non provvedimentale (o istituzionale) della pubblica amministrazione; e, in base ad essi, affermarne la concorrente e solidale responsabilità per i danni causati da condotte del preposto pubblico definibili come corrispondenti ad uno sviluppo oggettivamente non improbabile delle normali condotte di regola  inerenti all’espletamento delle incombenze o funzioni conferite, anche quale violazione o come sviamento o degenerazione od eccesso, purché anche essi prevenibili perché oggettivamente non improbabili.

Sono pertanto fonte di responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, pur se devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del potere di agire, purché: – si tratti di condotte a questo legate da un nesso di occasionalità necessaria, tale intesa la relazione per la quale, in difetto dell’estrinsecazione di detto potere, la condotta illecita dannosa – e quindi, quale sua conseguenza, il danno ingiusto – non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base al giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta; nonché – si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente, sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell’esercizio del conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che il potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente delle forme, non oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele estrinsecazione dei poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli agenti.

Infine, adeguata protezione del preponente dal rischio di rispondere del fatto del proprio ausiliario o preposto al di là dei generali principi in tema di risarcimento del danno extracontrattuale si ravvisa nell’applicazione anche in materia di danni da attività non provvedimentale della P.A. dei principi in tema di elisione del nesso causale in ipotesi di caso fortuito o di fatto del terzo o della vittima di per sé solo idoneo a reciderlo e di quelli in tema di riduzione del risarcimento in caso di concorso del fatto almeno colposo di costoro.

  • La giurisprudenza successiva

In altre parole, “lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni e agito per finalità esclusivamente personali o egoistiche ed estranee a quelle della amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi – non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata e in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo o illecito, non ne integrino uno sviluppo oggettivamente anomalo)”.

(…)

La responsabilità di chi si avvale dell’esplicazione dell’attività del terzo per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale trova radice non già in una colpa “in eligendo” degli ausiliari o “in vigilando” circa il loro operato, bensì nel rischio connaturato all’utilizzazione dei terzi nell’adempimento dell’obbligazione (Cass.,27/03/2015, n. 6243), realizzandosi, e non potendo obliterarsi, l’avvalimento dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione, comportante l’assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino (cfr. Cass.,06/06/ 2014, n. 12833). (cfr. Corte di Cassazione, Sezione III civile, ordinanza 28987 dell’11 novembre 2019).

E’ bene non dimenticarsi che “nella fattispecie di cui all’art. 2049 cod.civ. i due soggetti, il padrone ed il commesso, rispondono per titoli distinti, ma uno solo di essi è l’autore del danno; in altri termini, non è implicato il concorso del preponente nella produzione del fatto dannoso, non essendo configurabile alcun suo apporto propriamente causale alla verificazione del pregiudizio, ferma la corresponsabilità solidale nei confronti del danneggiato.

In nessun errore è incappata la Corte d’Appello ponendo a carico dell’Ateneo romano una responsabilità solidale fondata sulle ragioni chiarite ed una responsabilità concorrente, cioè una responsabilità diretta, indicativa del fatto che essa avesse, con un contributo causale efficiente proprio ed autonomo, concorso al verificarsi del danno.

Fondata è invece la censura relativa al fatto che la responsabilità ex art. 2049 cod.civ. sia stata invocata senza porsi il problema di individuare il fatto illecito imputato ai componenti della Commissione giudicatrice.

La responsabilità ex art. 2049 cod.civ. implica l’obbligo legale di risarcire il danno provocato dal fatto altrui, nasce direttamente in capo all’Università, in questo caso, e si giustifica in relazione all’esigenza di garantire il risarcimento al danneggiato, ponendo il danno a carico di colui che si avvale dell’opera altrui per realizzare un proprio interesse (cuius commoda eius et incommoda).

Il fatto illecito del domestico o del commesso, pur non essendo il fondamento dell’obbligo legale del padrone o committente, ma un presupposto implica, salvo i casi in cui l’autore materiale dell’illecito sia rimasto anonimo — “l’azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è tenuto a rispondere dell’operato dell’autore del fatto che integra una ipotesi di reato, è ammessa – tanto per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali – anche quando difetti una identificazione precisa dell’autore del reato stesso e purché questo possa concretamente attribuirsi ad alcune delle persone fisiche del cui operato il convenuto sia civilmente responsabile in virtù di rapporto organico” (Cass. 15/04/2019, n. 10445; Cass. 28/12/2011, n. 29260) — che si accerti “il fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. (cfr Corte di Cassazione, Sezione III civile, ordinanza 14613 del 9 luglio 2020).

3. La giurisprudenza più recente

Questo è importante “va poi aggiunto che il fatto doloso dell’agente non esclude, nella specie, il nesso di occasionalità necessaria che fonda, ex art. 2049 cod. civ., la responsabilità di * S.p.a (pubblica ndr.). per il danno morale, in base ai principi già enunciati da questa Corte di legittimità (arg. ex Cass., sez. un., 16/05/2019, n. 13246). (cfr. Corte di Cassazione, Sezione III civile, ordinanza 261 del 12 gennaio 2021).

Ricordiamo che “escluso il nesso di derivazione eziologica tra premesse e conseguenze dannose, ove alla stregua dei poteri, funzioni e competenze, attribuiti alle PP.AA., fosse, comunque, “inesigibile prevenire o raffigurarsi oggettivamente come sviluppo non anomalo” quelle attività illecite che abbiano concorso a cagionare il danno (cfr. Corte cass. Sez. U -, Sentenza n. 13246 del 16/05/2019, in motivazione, paragr. 51-56, con riferimento al danno cagionato dalla attività illecita commessa dal funzionario nell’esercizio – deviato – delle competenze affidategli). (cfr Corte di Cassazione, Sezione III civile, ordinanza 10038 del 15 aprile 2021).

Fondamentale inoltre risulta sapere che “appare evidente che non assumono decisivo rilievo la natura e la fonte del rapporto esistente tra preponente e preposto, essendo sufficiente anche una mera collaborazione od ausiliarietà del preposto, nel quadro dell’organizzazione e delle finalità dell’impresa gestita dal preponente.

Il fondamento della responsabilità ex art. 2049 cod. civ. va, infatti, rinvenuto non già nella formale esistenza di un rapporto di lavoro, ma nel rapporto effettuale che si istituisce quando per volontà di un soggetto (committente), altro soggetto (commesso) esplica in fatto attività per di lui conto e sotto il suo potere; in altre parole, è sufficiente che l’agente sia inserito, anche se temporaneamente o occasionalmente, nell’organizzazione aziendale, ed abbia agito per conto e sotto la vigilanza dell’imprenditore.

Da ciò si deduce che la preposizione può derivare anche da un rapporto di fatto; che non sono essenziali né la continuità, né l’onerosità del rapporto; è, inoltre, sufficiente l’astratta possibilità di esercitare un potere di supremazia o di direzione, non essendo necessario l’esercizio effettivo di quel potere (cfr. Corte di Cassazione, Sezione III civile, ordinanza 5414 del 26 febbraio 2021).

Sotto altro profilo, questa Corte ha avuto più volte modo di porre in rilevo che, ove nell’espletamento della propria attività si avvalga dell’opera di terzi – ancorché non alle sue dipendenze -, il committente (o il preponente) accetta il rischio connaturato alla relativa utilizzazione nell’attuazione della propria obbligazione, e risponde pertanto direttamente di tutte le ingerenze dannose, dolose o colpose, che a costoro, sulla base di un nesso di occasionalità necessaria, siano state rese possibili in conseguenza della posizione conferita nell’adempimento dell’obbligazione medesima rispetto al danneggiato e che integrano il “rischio specifico” assunto dal debitore, fondandosi tale responsabilità sul principio cuius commoda eius et incommoda ( cfr., con riferimento a differenti fattispecie, Cass., 12/5/2020, n. 8811; Cass., 14/2/2019, n. 4298; Cass., 22/11/2018, n. 30161; Cass., 12/10/2018, n. 25273; Cass., 6/6/2014, n. 12833; Cass., 13/4/2007, n. 8826 ).

E’ fatto peraltro salvo, nei rapporti interni, il diritto di rivalsa (cfr. Cass., 24/4/2019, n. 11194; Cass., 25/9/2012, n. 16254; Cass., 17/1/2012, n. 538. Cfr. altresì, Cass., 11/11/2019, n. 28987). (cfr. Corte di Cassazione, Sezione III civile, ordinanza numero 13595 del 19 maggio 2021).

In forza della più recente giurisprudenza di legittimità ai fini della sussistenza della responsabilità civile dell’imprenditore per fatto illecito commesso dal dipendente, non è necessaria l’esistenza di uno stabile rapporto di lavoro subordinato essendo sufficiente che l’autore del fatto illecito sia legato all’imprenditore temporaneamente od occasionalmente e che l’incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto civilmente responsabile del reato di lesioni volontarie aggravate una società che gestiva una casa di riposo per anziani presso la quale l’imputata svolgeva mansioni di assistente). (Sez. 5, Sentenza n. 32461 del 22/03/2013).

Inoltre è stato precisato che in tema di responsabilità civile da reato, specificamente fondata sull’art. 2049 cod. civ., ovvero responsabilità solidale per il fatto altrui, sussiste la responsabilità del committente per l’attività illecita posta in essere dall’agente anche privo del potere di rappresentanza, quando la commissione dell’illecito sia stato agevolato o reso possibile dalle incombenze demandate a quest’ultimo e il committente abbia avuto la possibilità di esercitare poteri di direttiva e di vigilanza.

(…)

La causalità efficiente — come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U -, n. 13246 del 16/05/2019, Rv. 65402601, in motivazione, §§ 46-51) — vale a descrivere null’altro che «una peculiare specie di relazione di causalità», da valutarsi alla stregua del criterio di regolarità causale con il quale è declinato in ambito civile il principio di equivalenza causale di cui all’art. 41 cpv. cod. peri., tale per cui «la verificazione del danno-conseguenza non sarebbe stata possibile senza l’esercizio dei poteri conferiti da altri, che assurge ad antecedente necessario anche se non sufficiente».

La scelta del legislatore è quella di far carico al preponente degli effetti delle attività compiute dai preposti, in quanto egli possa raffigurarsi ex ante quali questi possano essere e possa prevenirli o tenerli in adeguata considerazione nell’organizzazione della propria attività quali componenti potenzialmente pregiudizievoli: e quindi in quanto siano prevedibili gli sviluppi che le condotte regolari (in quanto non anomale od oggettivamente improbabili) in cui si estrinsecano i poteri (o funzioni o attribuzioni) conferiti al suo preposto (Cass. Sez. U. sent. cit. §§ 54, 56). (cfr. Corte di Cassazione, Sezione II penale, sentenza numero 19634 del 19 febbraio 2021).

E’ sufficiente un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto dannoso e l’incarico svolto dal condannato, certamente riscontrabile nel caso di specie, che «ricorre quando l’illecito è stato compiuto sfruttando comunque i compiti da questo svolti, anche se il dipendente ha agito oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti» (Sez. 6, n. 17049 del 14/04/2011, M., Rv. 250498-01) (cfr. Corte di Cassazione, Sezione I penale, sentenza numero 19092 del 9 marzo 2021).

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Questo articolo è stato scritto da...

Dott.ssa Sonia Lazzini
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