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Premesse: evoluzione normativa

Introdotto nel mondo dei lavori pubblici in virtù dell’interpretazione pretoria dell’art. 23, 6° comma, D. Lgs. 19.12.1991 n. 406, la c.d. associazione per cooptazione, veniva concepita allo scopo di far entrare nel sistema degli appalti pubblici imprese di modeste dimensioni che altrimenti non potrebbero parteciparvi per mancanza dei requisiti prescritti per costituire un’associazione ordinaria[1].

La piena positivizzazione dell’istituto trova luce, in prima battuta, all’interno dell’art. 95 (rubricato “Requisiti dell’impresa singola e di quelle riunite”) comma 4 del D.P.R. 554/1999, regolamento di attuazione della L. 109/94 (primo tentativo di codificazione dell’apparato normativo in tema di lavori pubblici), a mente del quale veniva stabilito che Se l’impresa singola o le imprese che intendano riunirsi in associazione temporanea hanno i requisiti di cui al presente articolo, possono associare altre imprese qualificate anche per categorie ed importi diversi da quelli richiesti nel bando, a condizione che i lavori eseguiti da queste ultime non superino il 20 per cento dell’importo complessivo dei lavori e che l’ammontare complessivo delle qualificazioni possedute da ciascuna sia almeno pari all’importo dei lavori che saranno ad essa affidati.

Sin dagli albori della sua applicazione, è stato chiarito che la c.d. associazione per cooptazione “consente alla singola impresa o all’associazione temporanea da costituire, che abbiano i requisiti prescritti per partecipare alla gara, di associare altre imprese qualificate anche per categorie ed importi diversi da quelli richiesti dal bando, a condizione che i lavori eseguiti da quest’ultime non superiori il 20% dell’importo complessivo dei lavori e che l’ammontare complessivo delle qualificazioni posseduto da ciascuna sia almeno pari all’importo dei lavori che saranno ad essa affidati[2].

L’articolo testé citato del precedente regolamento di attuazione, veniva ripreso senza stravolgimenti dall’art. 92 comma 5 del D.P.R. 207/2010 (regolamento di attuazione del previgente D.Lgs. 163/06), perpetrando la vigenza dell’istituto sino ad oggi, stante la mancata abrogazione delle norme del Titolo III Capo IV del citato D.P.R. 207/2010, invece stabilita dall’art. 213 del D.Lgs. 50/2016.

Come esplicitato dall’allora Autorità sui Contratti Pubblici, con proprio Parere AG-35/09, la norma, che rappresenta una eccezione ai criteri di ripartizione del possesso dei requisiti nell’ambito delle associazioni ordinarie, consente la partecipazione a gare per l’affidamento di lavori pubblici ad imprese in possesso di una qualsiasi attestazione SOA, anche diversa per categorie e classifiche da quella richiesta dal bando. Tale possibilità, come detto, resta comunque subordinata al possesso da parte delle imprese associanti, singole o in ATI, di tutti i requisiti richiesti per la partecipazione ed è esperibile nei limiti dell’affidamento all’impresa cooptata di lavori non superiori al 20% dell’appalto il cui importo deve essere comunque coperto dalla somma delle classifiche relative alle qualificazioni possedute dall’impresa cooptata.

La norma, che rappresenta una eccezione ai criteri di ripartizione del possesso dei requisiti nell’ambito delle associazioni ordinarie, consente la partecipazione a gare per l’affidamento di lavori pubblici ad imprese in possesso di una qualsiasi attestazione SOA, anche diversa per categorie e classifiche da quella richiesta dal bando

E’ evidente come, dall’esegesi strettamente letterale della normativa, l’istituto sia inteso a disciplinare una ipotesi derogatoria al sistema legale stabilito per l’accesso al mercato delle commesse pubbliche di lavori.

Il presente contributo, partendo dalla ricostruzione giurisprudenziale nel tempo consolidatasi in tema di estensione applicativa dell’istituto in parola, mira a voler comprendere se, al di là del ristretto ambito strettamente legato ai profili esecutivi, legati a doppia mandata col sistema legale di qualificazione, possa conoscere una estensione “territoriale” anche sul differente piano dell’elemento valutativo delle offerte.

1) La giurisprudenza e la posizione del cooptato

La giurisprudenza amministrativa, come stratificatasi negli anni, sin dalla genesi dell’istituto, ha sottolineato come lo stesso fosse completamente orientato a dare compiutezza al principio del favor nei confronti degli operatori economici di minori dimensioni, nel tentativo di temperare la preclusione all’accesso al mercato dei lavori pubblici per coloro che non fossero in possesso delle adeguate qualificazioni legalmente previste.

Pertanto, in deroga all’obbligo di qualificazione per la categoria specifica oggetto di affidamento, un operatore economico, facendo ricorso alla cooptazione, potrà far eseguire lavori ad una impresa di minori dimensioni, seppur nel limite del 20% del valore dell’appalto, per una commessa in relazione alla quale mai quest’ultima avrebbe potuto concorrere, anche qualora avesse inteso parteciparvi in associazione con altre imprese, poiché non qualificata.

Sul punto è stato più volte ribadito che con l’istituto della cooptazione, ai sensi dell’art. 92 d.P.R. n. 207 del 2010, un’impresa – priva dei prescritti requisiti di qualificazione e, quindi, di partecipazione – può, in via eccezionale, essere indicata come esecutrice di lavori nel limite del 20% dell’appalto, in deroga alla disciplina vigente in tema di qualificazione, sempreché abbia la qualificazione corrispondente alla propria quota di lavori; il soggetto cooptato non acquista lo status di concorrente, né assume quote di partecipazione all’appalto, non riveste la posizione di offerente (prima) e (contraente) dopo e non presta garanzie; ed infine non può né subappaltare né comunque affidare a terzi la propria quota dei lavori (Cons. Stato, V, 17 marzo 2014, n. 1327).

In line generale, secondo un filone giurisprudenziale abbastanza consolidato[3], l’impresa cooptata, una volta designata nella fase dell’offerta “diviene parte integrante del raggruppamento temporaneo d’imprese, anche ai fini dell’assolvimento degli oneri di compilazione dell’offerta imposti dal bando di gara”, delineando “una vicenda di tipo associativo, che si perfeziona fin dal momento della presentazione dell’offerta, rispetto alla quale non può ritenersi che l’impresa cooptata rimanga estranea alla stregua di un’impresa subappaltatrice”.

Un’impresa – priva dei prescritti requisiti di qualificazione e, quindi, di partecipazione – può, in via eccezionale, essere indicata come esecutrice di lavori nel limite del 20% dell’appalto, in deroga alla disciplina vigente in tema di qualificazione, sempreché abbia la qualificazione corrispondente alla propria quota di lavori; il soggetto cooptato non acquista lo status di concorrente, né assume quote di partecipazione all’appalto, non riveste la posizione di offerente (prima) e (contraente) dopo e non presta garanzie; ed infine non può né subappaltare né comunque affidare a terzi la propria quota dei lavori

Secondo il Consiglio di Stato, Sez. V, 19 marzo 2014, n. 1153, Cons. Stato, Sez. VI, 14 novembre 2012 n. 5749, Cons. Stato, sez. VI, 18 settembre 2009 n. 5626 l’associazione per cooptazione “costituisce pur sempre, dal punto di vista strutturale e formale, una peculiare figura di associazione temporanea di imprese”.

In ogni caso, l’istituto della c.d. cooptazione è infatti preordinato a consentire che imprese minori siano associate ad imprese maggiori e che, in questo modo, le prime maturino capacità tecniche diverse rispetto a quelle già possedute, facendo comunque salvo l’interesse della stazione appaltante attraverso l’imposizione della qualificazione dell’intero valore dell’appalto alle seconde, e cioè le imprese che associano. Appare quindi logico che le imprese cooptate non possano acquistare lo status di contraente; non possano acquistare alcuna quota di partecipazione all’appalto né rivestire la posizione di offerente, prima, e di contraente, dopo; non possano prestare garanzie né possano in alcun modo subappaltare o dichiarare di affidare a terzi una quota dei lavori. Esse infatti non ne sono titolari perché, per definizione, sono prive della attestazione SOA per eseguire il contratto in gara (C.d.S. V, 17 marzo 2014 n. 1327) e non possono quindi in alcun modo rivestire la qualità di “offerente” (TAR Toscana sez. I 13/1/2015 n. 53).

Del pari l’ANAC, con Delibera n. 228 del 1 marzo 2017, ha osservato che l’istituto della cooptazione ha carattere eccezionale e derogatorio, non essendo richiesto alle imprese cooptate di possedere tutti i requisiti di qualificazione richiesti ai concorrenti. In altri termini, «l’impresa cooptata può eseguire i lavori, ma non assume lo status di concorrente; essa, di conseguenza, non può acquistare alcuna quota di partecipazione all’appalto e, quindi, non deve (e, in realtà, neppure può) dichiarare la propria quota di partecipazione al raggruppamento temporaneo» (cfr. ANAC, determinazione n. 4 del 10 ottobre 2012, punto 7.1.1). In tal senso è anche l’orientamento prevalente della giurisprudenza, secondo cui «il soggetto cooptato non acquista lo status di concorrente, né assume quote di partecipazione all’appalto, non riveste la posizione di offerente (prima) e contraente (dopo) e non presta garanzie; infine non può né subappaltare, né comunque affidare a terzi la propria quota dei lavori» (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 14 aprile 2016, n. 1492; Sez. V, 17 marzo 2014, n. 1327; Sez. IV, 3 luglio 2014, n. 3344; Sez. V, 27 agosto 2013, n. 4278; TAR del Lazio, Roma, Sez. I, 16 giugno 2016, n. 6922; TAR Lazio, Roma, Sez. I, 5 dicembre 2014, n. 12288).

Di recente è stato ribadito che “l’istituto della cooptazione previsto dall’art. 92, comma 5, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 è stato oggetto di ampia elaborazione da parte della giurisprudenza amministrativa: costituisce una forma di cooperazione nell’esecuzione dell’appalto che consente ad imprese di piccole dimensioni di poter operare nel mercato delle commesse pubbliche pur in mancanza del possesso dei requisiti economico – finanziari e tecnico – professionali di norma richiesti per la partecipazione come concorrente alle procedure di evidenza pubblica. Si spiega, così, il limite posto dall’art. 92, comma 5, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 per il quale il concorrente può cooptare altra impresa nel limite dell’esecuzione del 20 per cento e sempre che le qualificazioni possedute siano almeno pari all’importo complessivo dei lavori che la cooptata si è impegnata a realizzare. La disposizione pone una regola speciale rispetto alla disciplina della ripartizione dei requisiti di partecipazione nell’ambito dei raggruppamenti temporanei di impresa dall’art. 92, comma 2, d.P.R. 207 cit., che si giustifica con le particolari caratteristiche dell’istituto della cooptazione. Il Collegio, pertanto, intende dare continuità all’orientamento giurisprudenziale per il quale l’associazione in cooptazione costituisce un particolare modello di collaborazione nell’esecuzione dell’appalto, la cui disciplina è quella dei raggruppamenti temporanei di impresa, salvo specifiche previsioni strettamente correlate alle caratteristiche dell’istituto che si atteggiano, pertanto, a regole speciali, come quella dell’art. 95, comma 5, d.P.R. n. 207 sui requisiti di partecipazione” (Consiglio di Stato sez. V 10/9/2018 n. 5287).

Pertanto, alla luce della ricostruzione dogmatica anzi ripercorsa, il soggetto cooptato, ai sensi dell’art. 92 del D.P.R. n. 207/2010, pur non potendo qualificarsi come un estraneo al soggetto aggiudicatario ed esecutore dei lavori, alla stregua di un subappaltatore:

1) non può acquisire lo status di concorrente;

2) non può acquisire alcuna quota di partecipazione all’appalto;

3) non può rivestire la posizione di offerente, prima, e di contraente, poi;

4) non può prestare garanzie, al pari di un concorrente o di un contraente;

5) non può, in alcun modo, subappaltare o dichiarare di affidare a terzi una quota dei lavori, di cui non è titolare, essendo privo della prescritta SOA.

2) L’esperienza tecnica del cooptato

Chi scrive è consapevole della presenza di un filone giurisprudenziale in forza del quale sarebbe ammissibile, per un concorrente che faccia ricorso all’istituto della cooptazione, di far validamente ricorso alla esperienza maturata da quest’ultimo ai fini dell’attribuzione del punteggio in seno al sub procedimento di valutazione delle offerte tecniche.

Si rinviene uno sparuto precedente giurisprudenziale, autorevolmente espresso dal Consiglio di Stato[4] del 2009, che muovendo da una censura esposta da parte appellante, si interroga proprio in merito al punto che, a mezzo del presente contributo si intende approfondire: in base a quale dato normativo è possibile pervenire all’affermazione che l’impresa associata (ndr. Cooptata) non concorre a “formare” il punteggio tecnico?

Continua in tono dubitativo il Collegio: verrebbe fatto di chiedersi perché mai una impresa dovrebbe cooptarne un’altra, “minor”, se poi la cooptazione dovesse risultare neutra ai fini dell’attribuzione del punteggio sull’offerta tecnica.

Conclude il Consiglio di Stato, poi, affermando che: la cooptazione quindi non avrebbe utilità quanto ai requisiti qualificativi (punto di partenza dal quale, confortato dalle indicazioni giurisprudenziali, muove l’appellante stesso), e non ne avrebbe neppure sotto il profilo del merito tecnico (anche se non se ne chiarisce il motivo); “servirebbe” alla cooptata (anche questa affermazione è confortata, lo si è visto dianzi, da indicazioni giurisprudenziali), ma non si vede perché la cooptante, che non ne ricaverebbe alcuna utilità, dovrebbe ricorrervi.

I presupposti da cui muove il citato precedente sono due: il primo è relativo al fatto che non vi sarebbero motivi ostativi espressi dalla normativa che possano indurre a ritenere che l’operatore economico associante non possa far ricorso all’esperienza del cooptato ai fini dell’attribuzione del punteggio; il secondo, più di carattere causale, si fonda sull’assunto che, se non fosse possibile far ricorso all’esperienza del cooptato, non si rintraccerebbe l’interesse alla cooptazione.

I presupposti non convincono integralmente.

A parere di chi scrive, gli assunti anzi sinteticamente espressi, potrebbero meritare, a distanza di quasi un decennio dalla loro professione, una rimeditazione.

A ben vedere, il secondo assunto, relativo alla utilità dalla cooptazione rinvenibile – a detta del Collegio -, esclusivamente nella possibilità di vantare in offerta tecnica l’esperienza del cooptato ai fini dell’attribuzione del punteggio, sembrerebbe non tenere in debita considerazione gli aspetti più strettamente operativi ovvero strettamente economici.

La recente giurisprudenza ha sdoganato, ad esempio, la gratuità del contratto di avvalimento, con ciò sancendo che l’interesse perseguito dalle parti cooperanti, ai fini della partecipazione alle gare pubbliche, potrebbe non essere rintracciabile in un mero do ut des. Sotto altro profilo, non deve sottacersi il profilo prettamente economico; il citato precedente non sembra tenere in considerazione quali possano essere gli accordi economici tra cooptato e cooptante, da cui potrebbe emergere la motivazione alla base della stipula dell’accordo cooptativo.

Il Consiglio di Stato del 2009, a parere di chi scrive, sembra invece escludere che possa rinvenirsi l’interesse economico-sociale sotteso dalle parti in aspetti che esulano da profili più strettamente legati alla partecipazione alla gara, pretendendo, di fatto, di individuare univocamente le motivazioni alla base degli accordi associativi tra operatori economici in uno scambio tra esecuzione e competenze.

Il primo assunto, invece, di carattere giuridico, sembra invece invertire l’iter logico-argomentativo di regola utilizzato per l’ermeneutica di fattispecie speciali e derogatorie come è l’associazione in cooptazione.

Il principio di specialità, che governa l’assetto ordinamentale degli affidamenti pubblici, avrebbe invero dovuto condurre ad una valutazione diversa circa l’inversione logica deduttiva adottata dal Collegio nel citato procedente del 2009.

Trattandosi di una fattispecie derogatoria che, alla stregua della rassegna giurisprudenziale rammentata, intende la posizione del cooptato come un soggetto nemmeno qualificabile come offerente, tanto è vero che non sottoscrive alcun documento relativo all’offerta, non assumendo alcun tipo di responsabilità vis a vis la stazione appaltante, non si ravvede in forza di quale disposizione espressa – necessaria allorquando si predichi di norma speciale – un concorrente possa fare validamente ricorso all’esperienza di un soggetto cooptato che, non possedendo la qualificazione per la categoria oggetto di affidamento, non può ontologicamente averne acquisita.

In linea con quanto appena asserito, chi scrive, sottolinea un passaggio pretorio costante in giurisprudenza che evidenzia quale sia la ratio dell’istituto.

La figura dell’associazione per cooptazione è preordinata a consentire che imprese minori siano associate ad imprese maggiori e che, in questo modo, le prime maturino capacità tecniche diverse rispetto a quelle già possedute, facendo comunque salvo l’interesse della stazione appaltante attraverso l’imposizione della qualificazione dell’intero valore dell’appalto alle seconde e cioè le imprese che associano

Si è affermato infatti che la figura dell’associazione per cooptazione è preordinata a consentire che imprese minori siano associate ad imprese maggiori e che, in questo modo, le prime maturino capacità tecniche diverse rispetto a quelle già possedute, facendo comunque salvo l’interesse della stazione appaltante attraverso l’imposizione della qualificazione dell’intero valore dell’appalto alle seconde e cioè le imprese che associano[5].


Se, pertanto, l’istituto risulta essere orientato, preordinato a far maturare ad imprese di minori dimensioni delle capacità tecniche che non si possiedono e che diversamente non potrebbero essere da esse acquisite stante l’assenza di qualificazioni per una data categoria, non si vede come possa essere consentito di poter apprezzare l’esperienza accumulata dal cooptato che, per antonomasia, non ne possiede in relazione alle categorie oggetto di affidamento.

Verrebbe da chiedersi, al pari del Consiglio di Stato, con tono interrogativo: di quale esperienza si stia parlando?

3) Conclusioni

Quale esperienza potrebbe utilmente vantare un soggetto che non possiede le qualificazione per le categorie dell’oggetto della gara per cui è stato chiamato in qualità di cooptato?

A ben vedere esiste una ipotesi normativa, del tutto residuale, che contempla tale circostanza. Nulla ha a che vedere, però, con gli argomenti spesi dal Consiglio di Stato.

Come noto, per eseguire lavori pubblici di modeste dimensioni, fino ad un ammontare pari a 150 mila euro, ai sensi dell’art. 90 del DPR 207/2010, è possibile qualificarsi attraverso la produzione in gara di documentazione attestante l’esecuzione di lavori analoghi eseguiti direttamente nel quinquennio antecedente la data di pubblicazione del bando non inferiore all’importo del contratto da stipulare.

Orbene, è possibile ritenere che un soggetto non idoneamente qualificato per eseguire le categorie di opere come classificate da un dato bando, abbia, nondimeno, maturato delle esperienze nello stesso settore, per importi non superiori a 150 mila euro e che, pertanto, le stesse possano, in ipotesi, essere utili per conseguire un vantaggio premiale in sede di valutazione delle offerte, qualora spese dall’operatore economico cooptante.

Rimane, in ogni caso, da dirimere il punto se le stesse possano essere validamente spendibili in gara da un soggetto che non è qualificabile neanche come concorrente.

Il citato arresto del 2009 del Consiglio di Stato rintraccia il presupposto del proprio avallo nel fatto che non sussistano motivi di ordine normativo che possano escludere la validità della spendita, ai fini dell’attribuzione del punteggio, dell’esperienza maturata dal cooptato.

Tale approccio, antesignano di un orientamento sostanzialistico, non tiene in minima considerazione il dato formale per quale il cooptato non sia da qualificarsi né concorrente né sottoscrittore del contratto, con ciò non assumendo alcun ruolo ovvero responsabilità con l’amministrazione appaltante. La giurisprudenza che dovesse essere chiamata ad esprimersi nuovamente sul punto dovrà inevitabilmente confrontarsi con tale dato formale, che solo ove superato per il tramite di un argomento giuridico-normativo, potrà effettivamente fornire un indirizzo univoco


[1] cfr. Cons. Stato n. 3129 dell’11.6.2001; conf. Cons. Stato n. 4655 del 25 luglio 2006

[2] cfr. Cons. Stato n. 3129 dell’11.6.2001; conf. Cons. Stato n. 4655 del 25 luglio 2006

[3] TAR Catania, Sez. I, 23 maggio 2014, n. 1425

[4] Consiglio di Stato, sez. VI, del 18 settembre 2009 n. 5626

[5] Consiglio di Stato, Sez. V, 14 aprile 2016, n. 1492; Cons. Stato V, 17 marzo 2014 n. 1327;TAR Toscana sez. I 13/1/2015 n. 53

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Questo articolo è stato scritto da...

Avv. Giuseppe Totino
Esperto in contratti pubblici
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