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1. Premessa

I costi aziendali per la sicurezza tornano periodicamente a far parlare di sé sia perché i massimi consessi giudiziali – Consiglio di Stato in Adunanza plenaria e Corte di giustizia – se ne sono recentemente occupati sia perché il tema ha finalmente trovato una più esplicita ed univoca disciplina nel nuovo Codice degli appalti pubblici. Fino all’entrata in vigore del D. Lgs. n. 50/2016, ci si trovava dinanzi ad una disciplina oggettivamente poco chiara e passibile di molteplici interpretazioni. Da ciò è discesa una interminabile sequenza di pronunce dei giudici di prime cure e del Consiglio di Stato tra loro difformi, che ha richiesto il reiterato intervento dell’Adunanza plenaria del Supremo Collegio al fine di svolgere un’azione nomofilattica.

Le due importanti pronunce dell’Adunanza plenaria avutesi nel 2015, la n. 3 e la n. 9, che imponevano un’interpretazione estremamente rigorosa dell’obbligo di indicazione in offerta dei costi di sicurezza, non hanno invero sciolto i dubbi di alcuni TAR sulla compatibilità di tale orientamento con il diritto comunitario ed, in particolare, con i principi di legittimo affidamento, certezza del diritto e parità di trattamento, di regola coniugati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in chiave nettamente sostanzialistica. Ne è scaturita la rimessione alla medesima Corte della questione pregiudiziale. Non solo: la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto di rimettere nuovamente la questione all’Adunanza plenaria per ottenere un ripensamento del principio di diritto dalla stessa precedentemente formulato.

Come si vedrà nel prosieguo della trattazione, la nuova posizione dell’Adunanza plenaria anticipa l’orientamento della Corte di giustizia sul tema, da ultimo espresso con la recente ordinanza del 10 novembre 2016.

Il presente contributo esaminerà quindi tali ultimi arresti giurisprudenziali e si soffermerà infine sulla nuova disciplina che il D. Lgs. n. 50/2016 detta in materia, cercando di comprendere, in assenza, al momento, di pronunce giurisprudenziali in merito, in che modo l’orientamento da ultimo formatosi possa adattarsi alla nuova disciplina.

Sul tema dell’obbligo di indicazione in offerta dei costi aziendali di sicurezza è tornato a pronunciarsi il Consiglio di Stato in Adunanza plenaria, nonché la Corte di giustizia dell’Unione Europea, mitigando decisamente il rigore dell’orientamento precedentemente consolidatosi.

2. L’orientamento del Consiglio di Stato sino al 2015: l’Adunanza plenaria n. 3 e l’Adunanza plenaria n. 9

La pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 3 del 20 marzo 2015[1] nasce da una controversia sorta nell’ambito di un appalto di lavori in cui la stazione appaltante aveva rilevato l’omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali nell’offerta economica di una concorrente. In virtù dell’orientamento sino ad allora espresso dalla giurisprudenza maggioritaria, anche del Consiglio di Stato, l’amministrazione ne disponeva l’esclusione dalla gara, per mancanza di un elemento essenziale dell’offerta. L’Adunanza Plenaria, chiamata a pronunciarsi a seguito dell’ordinanza di rimessione della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, compiva, in quella sede, uno sforzo interpretativo per comprendere se l’art. 87 dell’ormai abrogato D. Lgs. n. 163/2006[2], riguardasse soltanto gli appalti di servizi e di forniture, cui si riferiva espressamente l’inciso finale del testo normativo, ovvero dovesse estendersi anche agli appalti di lavori.

L’Adunanza Plenaria iniziava con il riepilogare i contrapposti orientamenti formatisi sino a quel momento. Da un lato quello più rigoroso, elaborato in particolare dalla Terza Sezione, secondo il quale sarebbe sussistito l’obbligo di indicare tali oneri in offerta, pena l’esclusione, sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture. Secondo tale orientamento tradizionale, sarebbe stata del tutto irrilevante la circostanza per la quale la disciplina di gara non prevedesse espressamente tale indicazione a pena di esclusione. Trattandosi di una carenza essenziale riguardante l’offerta e non una delle dichiarazioni relative ai requisiti di ammissione alla gara, non se ne sarebbe potuta ritenere consentita l’integrazione mediante l’esercizio del soccorso istruttorio da parte della stazione appaltante[3], pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.

Il Supremo Collegio, nella pronuncia n. 3 citata, dava poi altresì conto dell’altro orientamento, più recente, elaborato principalmente dalla Quinta Sezione, in base al quale invece sarebbe stato necessario distinguere tra lavori da una parte e servizi e forniture dall’altra. Solo per questi ultimi l’art. 87, comma 4 del vecchio Codice, infatti, avrebbe imposto uno specifico obbligo dichiarativo alle imprese concorrenti, mentre per i lavori si sarebbe dovuto guardare alla quantificazione operata dalla stazione appaltante. In altri termini, l’obbligo di indicare nell’offerta gli oneri di sicurezza aziendali avrebbe riguardato solo gli appalti di servizi e forniture  mentre, per i lavori, la quantificazione di tali oneri sarebbe stata rimessa al PSC predisposto dalla stazione appaltante.

Una volta ripercorsi i tratti salienti e le argomentazioni principali a sostegno dell’uno e dell’altro orientamento, l’Adunanza Plenaria, con la pronuncia n. 3, concludeva nel senso che, nelle procedure di affidamento relative ai contratti pubblici di lavori, i concorrenti avrebbero dovuto necessariamente indicare nell’offerta economica i costi per la sicurezza aziendali, quale che fosse la tipologia di appalto.

Secondo il Collegio, la tesi per cui non fosse necessario indicare in offerta gli oneri di sicurezza interni perché gli stessi erano già definiti nel Piano di sicurezza e coordinamento (PSC), secondo i dettami degli artt. 100 del D. Lgs. n. 81/2008 e 131 del vecchio Codice, non poteva essere condivisa in quanto il PSC è riferito ai costi di sicurezza quantificati a monte dalla stazione appaltante, ossia ai c.d. costi da interferenze o da rischi interferenziali, e non ai costi aziendali delle imprese. In sintesi, secondo l’Adunanza Plenaria, sarebbe stato contraddittorio che, proprio nel settore dei lavori, in cui vengono svolte le attività più rischiose, non si garantisse una adeguata ponderazione dei costi connessi alla sicurezza, in dispregio della primaria finalità di tutela della sicurezza sul lavoro, difesa anche dalla Costituzione. L’unica interpretazione plausibile della norma in esame, perché costituzionalmente orientata, sarebbe stata quella secondo cui l’obbligo dei concorrenti di specificare gli oneri aziendali per la sicurezza del lavoro sussisterebbe anche nelle offerte relative agli appalti di lavori.

Alla luce dell’interpretazione fatta dall’Adunanza Plenaria con la pronuncia n. 3 sin qui esaminata, l’omessa indicazione nelle offerte degli oneri di sicurezza interni, anche nell’ambito degli appalti di lavori, configurava dunque un’ipotesi di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal Codice, da cui scaturiva, ai sensi dell’art. 46 del medesimo, un’incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta e, conseguentemente, l’esclusione della stessa dalla procedura per inosservanza di un precetto imperativo che impone un determinato adempimento ai partecipanti e che ha il potere di eterointegrare la lex specialis che non lo preveda espressamente. La mancata indicazione dei costi in esame configurerebbe dunque una carenza essenziale riguardante l’offerta, non sanabile con il potere di soccorso istruttorio della stazione appaltante.

Nella pronuncia n. 3 del 2015, l’Adunanza plenaria affermava che la mancata indicazione degli costi di sicurezza in offerta costituiva causa di esclusione, senza possibilità di ricorso al soccorso istruttorio, per qualsiasi tipo di appalto, ivi compresi quelli di lavori.

Qualche mese dopo, il Supremo Collegio è tornato ad esprimersi sul punto, sempre in Adunanza plenaria. Con la pronuncia n. 9 del 2 novembre 2015[4] infatti il Consiglio di Stato, a seguito di un’ordinanza di rimessione della Quarta Sezione, ha chiarito la sua posizione in merito alla doverosità dell’uso dei poteri di soccorso istruttorio nei casi in cui la fase procedurale di presentazione delle offerte si fosse perfezionata prima della pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3.

Secondo il Supremo Collegio, non sarebbe stato sostenibile che l’esclusione dalla gara per non avere indicato gli oneri di sicurezza interni potesse essere comminata solo per le procedure bandite successivamente alla pubblicazione della decisione della A.P. n. 3 del 2015, in quanto la funzione nomofilattica delle pronunce dell’Adunanza plenaria hanno <<valore esclusivamente dichiarativo>>. Se così non fosse, si sarebbe attribuito alla interpretazione giurisprudenziale <<valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione>>[5].

Con la sentenza n. 9, l’Adunanza formulava dunque un ulteriore principio di diritto: <<non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 2015>>.

3. L’antefatto alla nuova pronuncia dell’Adunanza plenaria: le ordinanze di rimessione alla Corte di Giustizia Europea e all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato

All’inizio del 2016 la questione dell’automatica esclusione delle offerte carenti dell’indicazione degli oneri di sicurezza aziendali è stata sottoposta al vaglio della Corte di giustizia dell’Unione Europea.

Numerosi Tribunali amministrativi regionali hanno infatti posto in dubbio la conformità alla normativa europea di tale orientamento. In particolare, il TAR Piemonte, il TAR Campania, il TAR Molise e il TAR Marche[6], hanno rimesso alla Corte di giustizia la seguente questione pregiudiziale: <<se i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui (da ultimo) alla direttiva n. 2014/24/UE, ostino ad una normativa nazionale, quale quella italiana derivante dal combinato disposto degli artt. 87, comma 4, e 86, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, e dall’art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008, così come interpretato, in funzione nomofilattica, ai sensi dell’art. 99 cod. proc. amm., dalle sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nn. 3 e 9 del 2015, secondo la quale la mancata separata indicazione dei costi di sicurezza aziendale, nelle offerte economiche di una procedura di affidamento di lavori pubblici, determina in ogni caso l’esclusione della ditta offerente, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata non sia stato specificato né nella legge di gara né nell’allegato modello di compilazione per la presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l’offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale>>.

Contestualmente, in considerazione della pendenza di una simile questione nanti la Corte di Giustizia, le singole Sezioni del Consiglio di Stato, a loro volta, hanno in diverse occasioni disposto la sospensione del giudizio, ai sensi dell’art. 79, comma 1, CPA, in attesa della pronuncia della Corte di Lussemburgo[7].

Numerosi TAR hanno posto in dubbio la compatibilità dell’orientamento dettato dalle pronunce dell’Adunanza Plenaria con i principi comunitari di legittimo affidamento e parità di trattamento ed hanno sollevato la questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia.

La Quinta Sezione del Consiglio di Stato, invece, dinanzi a questioni controverse attinenti alla applicabilità o meno del soccorso istruttorio in caso di omessa indicazione in offerta dei costi della sicurezza, laddove nulla venisse previsto in merito dalla lex specialis, ha ritenuto di sollecitare nuovamente l’intervento dell’Adunanza plenaria, cogliendo in tale sede altresì l’occasione per chiedere alla stessa un chiarimento sulla portata del suo ruolo nomofilattico ai sensi dell’art. 99, comma 3, CPA[8].

La Sezione rimettente si è posta infatti il problema di coordinare la disciplina contenuta nel comma 3 dell’art. 99 CPA, a mente del quale <<se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, rimette a quest’ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso>>, con quella contenuta nel par. 3 dell’art. 267 TFUE, secondo cui <<quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte>>.

Preliminarmente, quindi, la Quinta Sezione ha rimesso all’Adunanza plenaria il quesito se, in costanza di un principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria che venga sospettato di contrasto con la normativa dell’Unione Europea, la singola Sezione debba rimettere la questione alla stessa Adunanza, oppure possa sollevare autonomamente, quale giudice comune del diritto dell’Unione europea, una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia. E ciò, sia nel caso in cui l’Adunanza plenaria, nell’enunciare il contestato principio di diritto, abbia espressamente verificato la rispondenza del medesimo anche alla disciplina dell’Unione Europea, sia nel caso in cui tale verifica espressa non vi sia stata.

Nel merito, poi, la Sezione rimettente ha chiesto all’Adunanza di pronunciarsi su un quesito di diritto sostanzialmente analogo a quello posto dai TAR all’attenzione della Corte di giustizia, ovvero se il principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria n. 9/2015, sia rispettoso dei principi europei, di matrice giurisprudenziale, della tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, dei principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, nonché dei principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza.

Secondo la Sezione rimettente, infatti, l’impostazione dettata dalle precedenti pronunce dell’Adunanza Plenaria in tema di costi per la sicurezza – noncurante del comportamento colpevole dell’Amministrazione che induca in errore i concorrenti perché non preveda l’obbligo di indicazione dei costi per la sicurezza a pena di esclusione nella lex specialis, e che addirittura predisponga un modulo privo dell’indicazione della voce in questione – potrebbe risultare contrastante con i suddetti principi.

La Quinta Sezione ha sollecitato un nuovo intervento dell’Adunanza Plenaria al fine di mitigare il precedente orientamento in tema di costi aziendali per la sicurezza per renderlo compatibile con i principi comunitari ribaditi recentemente dalla Corte di Giustizia.

4. L’Adunanza Plenaria n. 19 del 2016 e la sentenza della Corte di Giustizia <<Pippo Pizzo>>

Dall’ordinanza di rimessione n. 1116 del 18 marzo 2016 della Quinta Sezione ha origine l’importante, ultima pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, la n. 19 del 27 luglio 2016, la quale, come accennato in premessa, mitiga il precedente principio di diritto dalla stessa formulato in tema di obbligo di indicazione dei costi di sicurezza in offerta, rendendolo compatibile con i principi comunitari.

In primo luogo, con riferimento alla questione posta in via preliminare all’Adunanza, avente ad oggetto, in definitiva, la portata del suo ruolo nomofilattico, il Supremo Collegio richiama il recente orientamento della Corte di giustizia[9] secondo il quale, in sintesi, le Sezioni hanno facoltà sia di adire direttamente la Corte di giustizia, senza dover prima rimettere la questione all’Adunanza plenaria, sia di disattendere il principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria, ove esso risulti manifestamente in contrasto con una interpretazione del diritto dell’Unione già fornita, in maniera chiara ed univoca, dalla giurisprudenza comunitaria.

Fatta tale premessa, però, il Collegio precisa che <<ciò non toglie, tuttavia, che l’Adunanza plenaria, nei casi, come quello del presente giudizio, in cui sia stata investita dalla sezione cui è assegnato il ricorso di una questione diretta a provocare in senso lato un “ripensamento” (una revisione o anche solo una specificazione, una mitigazione oppure semplicemente un chiarimento) su un principio di diritto precedentemente enunciato, possa pronunciarsi sulla relativa questione, eventualmente anche dando seguito ai dubbi di corretta interpretazione del diritto dell’Unione Europea prospettati dalle Sezione, rimettendo alla Corte di giustizia la questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE>>.

Una volta passata all’esame della questione di merito, ovvero alla compatibilità del suo precedente orientamento con i principi di matrice comunitaria, l’Adunanza plenaria si pone innanzitutto il problema di giustificare la sua volontà di esaminare la questione nonostante ne penda una analoga dinnanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea. I giudici di Palazzo Spada spiegano infatti che sotto il profilo del metodo, le strade percorribili sarebbero tre: 1) disporre la sospensione c.d. impropria del giudizio, in attesa che si pronunci il giudice europeo; 2) sollevare una questione pregiudiziale di corretta interpretazione del diritto dell’Unione Europea, per verificare se ed in che misura esso osti all’applicazione del principio di diritto enunciato dalla precedente sentenza n. 9 del 2015; 3) decidere comunque la questione nel merito, riesaminando, anche alla luce dei dubbi di compatibilità comunitaria manifestati dall’ordinanza di rimessione, il proprio orientamento espresso nella citata sentenza n. 9 del 2015.

L’Adunanza opta per la terza soluzione sia perché tale scelta corrisponde alle richieste delle parti, che hanno manifestato espressamente l’interesse ad avere una decisione immediata, senza attendere i tempi più lunghi richiesti per la decisione della Corte di giustizia, sia perché l’esercizio della funzione nomofilattica da parte dell’Adunanza risolverebbe in via preventiva i dubbi di compatibilità comunitaria sottesi alla questione pregiudiziale sollevata da numerosi Tribunali amministrativi regionali dinanzi alla Corte di giustizia e farebbe superare la causa ostativa che ha determinato la sospensione di diversi giudizi amministrativi pendenti anche in grado di appello.

Ciò premesso, l’Adunanza plenaria affronta la necessità di rivedere il proprio precedente orientamento per mitigarlo o, quanto meno, per meglio chiarirlo al fine di attenuarne alcune conseguenze applicative effettivamente incompatibili con i principi comunitari.

Si legge nella sentenza n. 19: <<il Collegio ritiene, infatti, che in casi come quello del presente giudizio, l’automatismo dell’effetto escludente si ponga in contrasto con i principi di certezza del diritto, tutela dell’affidamento, nonché con quelli, (…) di trasparenza, proporzionalità e par condicio>>.

La parziale revisione della sua precedente posizione nasce dall’esame di una recente sentenza della Corte di giustizia, la c.d. Pippo Pizzo[10],  la quale, chiamata a pronunciarsi su una controversia sorta in Italia concernente l’esclusione di una impresa da una gara in ragione del mancato pagamento del contributo all’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici previsto dalla legge n. 266/2005, ha enunciato il seguente principio: <<Il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza devono essere interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da parte di tale operatore, di un obbligo che non risulta espressamente dai documenti relativi a tale procedura o dal diritto nazionale vigente, bensì da un’interpretazione di tale diritto e di tali documenti nonché dal meccanismo diretto a colmare, con un intervento delle autorità o dei giudici amministrativi nazionali, le lacune presenti in tali documenti. In tali circostanze, i principi di parità di trattamento e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di consentire all’operatore economico di regolarizzare la propria posizione e di adempiere tale obbligo entro un termine fissato dall’amministrazione aggiudicatrice>>.

In altri termini: il principio di parità di trattamento impone che tutti gli offerenti dispongano delle stesse possibilità nella formulazione delle loro offerte e implica, quindi, che tali offerte siano soggette alle medesime condizioni per tutti, ciò anche al fine di eliminare i rischi di favoritismo da parte della stazione appaltante. Da ciò discende che tutte le condizioni e le modalità della procedura di gara debbano essere formulate in maniera chiara, precisa e univoca nel bando o nel capitolato d’oneri, o, quanto meno nella legge, così da permettere a tutti gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente diligenti di comprenderne l’esatta portata e d’interpretarle allo stesso modo. Diversamente, se la corretta partecipazione ad una procedura di aggiudicazione fosse di fatto subordinata a condizioni emergenti dall’interpretazione del diritto nazionale o, addirittura, dalla prassi di un’autorità, ciò sarebbe particolarmente sfavorevole per i concorrenti di altri Stati membri, il cui grado di conoscenza del diritto nazionale e della sua interpretazione può non essere comparabile a quello degli offerenti nazionali, con evidente violazione della par condicio tra i concorrenti.

Seppure incidentamente, la Corte di giustizia, nella sentenza Pippo Pizzo, fa un accenno agli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro: sebbene la norma nazionale non imponga che il capitolato d’oneri specifichi dettagliatamente tutti gli obblighi relativi, tra l’altro, alle disposizioni in materia di sicurezza e alle condizioni di lavoro che sono in vigore nello Stato membro, la Corte rileva come non sia consentito, tuttavia, che, nell’ipotesi in cui nei documenti di gara tali obblighi non siano richiamati, si proceda all’automatica esclusione dalla procedura delle offerte che manchino delle relative indicazioni.

L’Adunanza ha ammesso che la regola della esclusione automatica, senza il previo esercizio del soccorso istruttorio, del concorrente che non abbia specificato nell’offerta gli oneri di sicurezza possa risultare, a determinate condizioni, sproporzionata e di fatto iniqua.

Conformemente alla posizione assunta dalla Corte di giustizia nel caso Pippo Pizzo, i cui principi enunciati si attagliano perfettamente al caso esaminato dall’Adunanza plenaria, pur trattandosi di fattispecie concrete differenti, l’Adunanza ammette che la regola dell’esclusione automatica, senza il previo esercizio del soccorso istruttorio, del concorrente che non abbia specificato nell’offerta gli oneri di sicurezza, risulti sproporzionata e sostanzialmente iniqua. Ciò in quanto la condotta della stazione appaltante, che ha omesso di specificare l’obbligo di indicazione dei costi per la sicurezza nella lex specialis ed ha addirittura predisposto un modulo per la presentazione dell’offerta economica privo di tale indicazione, ha sicuramente ingenerato in capo ai concorrenti un significativo affidamento circa la non sussistenza dell’obbligo di indicare nell’offerta economica gli oneri di sicurezza.

A ciò si aggiunga che la presentazione dell’offerta contestata nella controversia de qua risale ad un momento antecedente alla sentenza n. 3 dell’A.P., e quindi ad un momento in cui sussisteva un evidente contrasto giurisprudenziale sintomatico di un’incertezza normativa. In presenza di tali concorrenti circostanze, <<l’applicazione della regola dell’esclusione automatica, senza il previo soccorso istruttorio, si tradurrebbe in un risultato confliggente con i principi euro-unitari di tutela dell’affidamento, di certezza del diritto, di trasparenza, par condicio e proporzionalità>>. Assume particolare peso l’argomentazione per cui una condizione di ammissibilità dell’offerta, derivante solo dall’interpretazione del diritto nazionale e non evincibile dalla lettera della legge o della lex specialis, sarebbe particolarmente sfavorevole per gli offerenti stabiliti in altri Stati membri, il cui grado di conoscenza del diritto nazionale e della sua interpretazione non è ovviamente pari a quello dei concorrenti nazionali.

L’Adunanza sancisce così il seguente principio di diritto: <<Per le gare bandite anteriormente all’entrata in vigore del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, nelle ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in contestazione che, dal punto di vista sostanziale, l’offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale, l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l’offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio>>.

Sull’aspetto del rispetto sotto il profilo sostanziale dei costi minimi di sicurezza aziendale, il Supremo Collegio specifica che <<gli oneri di sicurezza rappresentano un elemento essenziale dell’offerta (…) solo nel caso in cui si contesta al concorrente di avere formulato un’offerta economica senza considerare i costi derivanti dal doveroso adempimento dei obblighi di sicurezza a tutela dei lavoratori. In questa ipotesi, vi è certamente incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta e la sua successiva sanatoria richiederebbe una modifica sostanziale del “prezzo” (perché andrebbe aggiunto l’importo corrispondente agli oneri di sicurezza inizialmente non computati). Laddove, invece, (…), non è in discussione l’adempimento da parte del concorrente degli obblighi di sicurezza, né il computo dei relativi oneri nella formulazione dell’offerta, ma si contesta soltanto che l’offerta non specifica la quota di prezzo corrispondente ai predetti oneri, la carenza, allora, non è sostanziale, ma solo formale>>. I giudici di Palazzo Spada, in tale frangente, rispolverano una interpretazione dagli stessi già formulata in altre occasioni, che dà rilievo più all’aspetto sostanziale dell’effettiva sussistenza dei requisiti di partecipazione che a quello formale di regolare dichiarazione del possesso degli stessi.

Il principio di diritto sopra enunciato si applica, per espressa specificazione del Supremo Collegio, sia alle controversie in cui la presentazione delle offerte sia antecedente alla sentenza n. 3 dell’Adunanza plenaria sia a quelle in cui le offerte siano state presentate successivamente a tale data. Ovviamente, ora la nuova data spartiacque è costituita dall’entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti pubblici, il D. Lgs. n. 50/2016.

Con riferimento alla possibile applicabilità del principio di diritto testè stabilito dall’Adunanza anche in vigenza del nuovo Codice, la stessa lascia aperta la questione – sulla quale non può pronunciarsi perché il tema non è oggetto del contendere – <<se l’ampia formulazione dell’art. 80, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016 (che ammette il soccorso istruttorio con riferimento a “qualsiasi elemento formale della domanda”) consenta, comunque, anche nella vigenza del nuovo “Codice”, di sanare l’offerta che sia viziata solo per la mancata formale indicazione separata degli oneri di sicurezza>>.

Secondo l’Adunanza plenaria n. 19, se l’obbligo di indicare in offerta i costi di sicurezza aziendale non è stato specificato dalla legge di gara, e l’offerta rispetti nella sostanza i costi minimi di sicurezza, è necessario attivare il soccorso istruttorio prima di disporre l’esclusione.

5. L’ordinanza della Corte di giustizia del 10 novembre 2016 e il problema dell’applicabilità del principio alla nuova disciplina dettata dal D. Lgs. n. 50/2016

Alla fine dell’anno appena trascorso, la Corte di giustizia si è finalmente pronunciata sulla questione pregiudiziale postale da differenti Tribunali amministrativi regionali, ed in particolare dal TAR Marche, ed ha, con un’ordinanza del 10 novembre 2016[11], ribadito il principio di diritto già enunciato dalla stessa con la sentenza Pippo Pizzo citata anche dall’Adunanza plenaria n. 19.

I giudici europei richiamano l’assunto secondo il quale il principio della parità di trattamento impone che tutti gli offerenti dispongano delle stesse possibilità nella formulazione dei termini delle loro offerte. Tale obbligo implica che tutte le condizioni e le modalità della procedura di gara siano chiaramente definite in anticipo e rese pubbliche, in particolare gli obblighi a carico degli offerenti, affinché questi ultimi possano conoscere esattamente i vincoli procedurali ed essere sicuri del fatto che gli stessi valgano per tutti i concorrenti.

Nel caso concreto oggetto della controversia, l’obbligo di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, pena l’esclusione dalla gara, non era previsto né dal bando né espressamente dalla legge italiana. Prova di ciò è il contrasto giurisprudenziale sul punto protrattosi per anni, sintomo evidente di una normativa a dir poco equivoca. La Corte riconosce che tale obbligo risulterebbe soltanto dall’interpretazione della normativa nazionale ad opera del Consiglio di Stato.

I giudici di Lussemburgo rammentano che, ai sensi della direttiva 2004/18, in particolare dagli articoli da 49 a 51 della stessa, non emerge che la mancanza di indicazioni, da parte degli offerenti, del rispetto delle disposizioni in materia di sicurezza e alle condizioni di lavoro in vigore nello Stato membro determini automaticamente l’esclusione dalla procedura di aggiudicazione.

Di più: una condizione di partecipazione o di ammissibilità dell’offerta, derivante soltanto dall’interpretazione del diritto nazionale o dalla prassi di un’autorità, sarebbe particolarmente sfavorevole per gli offerenti che risiedano in altri Stati membri, il cui grado di conoscenza del diritto nazionale e della sua interpretazione nonché della prassi delle autorità nazionali non può essere paragonabile a quello dei concorrenti nazionali, come già affermato nella sentenza Pippo Pizzo. Nell’ipotesi in cui una condizione per la partecipazione alla gara, pena l’esclusione da quest’ultima, non sia espressamente prevista dai documenti dell’appalto e possa essere identificata solo con un’interpretazione giurisprudenziale del diritto nazionale, la stazione appaltante può (rectius: deve) accordare all’offerente escluso un termine sufficiente per regolarizzare la sua omissione.

In altri termini, se la norma nazionale non è chiara, come era per gli artt. 86 e 87 del vecchio Codice, e la disciplina di gara nulla dica sul punto, se un obbligo si evince in concreto solo da un’interpretazione giurisprudenziale, il suo mancato rispetto da parte di un concorrente non può comportare l’automatica esclusione dello stesso dalla procedura, ma occorre offrire al concorrente lo strumento del soccorso istruttorio.

BOX: Nel nuovo Codice l’obbligo di indicazione in offerta dei costi di sicurezza è sancito chiaramente. Ci si chiede se la sua violazione, a prescindere dall’indicazione esplicita o meno dello stesso nella lex specialis, comporti ora l’automatica esclusione dalla procedura ovvero si debba ricorrere al soccorso istruttorio.

Resta ora da chiedersi che cosa succeda invece in presenza di una norma di legge finalmente univoca. Il nuovo Codice degli appalti pubblici, infatti, ha stabilito in modo chiaro che <<nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro[12]>>.

Viene meno dunque il presupposto stesso del principio di diritto sancito sia dalla Corte di giustizia che dall’Adunanza plenaria n. 19, ovvero la desumibilità dell’obbligo solo dall’interpretazione del diritto nazionale o da una prassi. La nuova disciplina legislativa appare chiara: l’obbligo di indicazione separata dei costi per la sicurezza nell’offerta economica è sancito in termini generali, quale che sia la tipologia dell’appalto, da una norma che assume il carattere dell’imperatività.

In assenza di pronunce giurisprudenziali sulla nuova disciplina, ancora troppo recente, si può comunque tentare di svolgere un ragionamento sulla base dei precedenti arresti giurisprudenziali sul tema.

Ora che l’obbligo è sancito chiaramente da una norma imperativa, la sua violazione, a prescindere dall’indicazione esplicita o meno dello stesso nella lex specialis – da considerarsi, a rigore, eterointegrata dalla norma imperativa -, dovrebbe comportare la mancanza di un requisito essenziale dell’offerta e determinare quindi l’esclusione dalla procedura. Resta da capire se sia applicabile a questa violazione essenziale il soccorso istruttorio.

L’art. 83, comma 9, del nuovo Codice sancisce che <<le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura del soccorso istruttorio (…). La mancanza, l’incompletezza ed ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del DGUE di cui all’art. 85, con esclusione di quelle afferenti all’offerta tecnica ed economica, obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento>> della sanzione e alla regolarizzazione dei vizi riscontrati nella domanda.

A questo punto, le ipotesi interpretative possibili sono essenzialmente due. Da un lato, potrebbe accedersi ad una tesi sostanzialistica che conferisca la più ampia portata alla dizione “qualsiasi elemento formale della domanda” e contestualmente consideri quale vizio meramente formale – e quindi sanabile – la mancata indicazione degli oneri di sicurezza, fermo restando che sia dimostrato il sostanziale rispetto nell’offerta dei costi minimi di sicurezza aziendali. Dall’altro, si potrebbe invece dare peso determinante all’inciso “con esclusione di quelle afferenti all’offerta tecnica ed economica”, il che farebbe propendere per escludere l’ammissibilità del soccorso istruttorio ogniqualvolta il vizio riscontrato attenga all’offerta tecnica o economica[13]. Nel caso che ci interessa l’omissione riguarderebbe proprio un elemento essenziale dell’offerta economica; pertanto, a rigore, il soccorso istruttorio non potrebbe essere invocato. 

Pur a voler ritenere percorribile la tesi sostanzialistica – invero, ad avviso di chi scrive, non aderente alla lettera della norma – si porrebbe l’ulteriore problema di svolgere comunque, o di anticipare a seconda dei casi, il subprocedimento di verifica di congruità dell’offerta economica viziata dall’omessa indicazione dei costi di sicurezza. Infatti, per essere certi che la successiva indicazione dei costi di sicurezza in sede di regolarizzazione corrisponda ad una correzione di un vizio meramente formale dell’offerta e non ad un mancato sostanziale rispetto dei costi minimi di sicurezza al momento della composizione del prezzo da offrire, occorrerà effettuare in concreto una verifica della congruità del prezzo indicato, proprio con riferimento ai suddetti costi.


[1] Tale pronuncia è stata già oggetto di esame da parte di chi scrive in un precedente contributo alla Rivista. Si veda Mediappalti, anno V, n. 4.

[2] Le disposizioni cui qui ci si riferisce sono, innanzitutto, l’art. 86, 3-bis e 3-ter, e l’art. 87, comma 4, dell’abrogato Codice dei contratti pubblici, il D. Lgs. n. 163/2006.

[3] Ex art. 46, comma 1-bis, dell’abrogato D. Lgs. n. 163 del 2006.

[4] Anche tale pronuncia è stata oggetto di esame da parte di chi scrive in un precedente contributo alla Rivista. Si veda Mediappalti, anno V, n. 9.

[5] La pronuncia in esame richiama la fondamentale pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 15144 del 2011, a partire dalla quale si è costantemente affermato che, per attribuire carattere innovativo all’intervento nomofilattico, occorre la concomitanza di tre precisi presupposti: l’intervento deve riguardare una regola del processo; la nuova interpretazione formulata deve essere imprevedibile e “di rottura” rispetto ad altra consolidata nel tempo, sulla quale si era evidentemente formato un ragionevole affidamento; infine, la nuova esegesi deve comportare un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa. Nel caso in esame, secondo l’Adunanza Plenaria, non sussiste alcuno dei tre citati presupposti, non trattandosi di norma attinente ad un procedimento di carattere giurisdizionale, non preesistendo un indirizzo lungamente consolidato nel tempo e non risultando precluso il diritto di azione o di difesa per alcuna delle parti in causa.

[6] Il TAR Piemonte con ordinanza 16 dicembre 2015, n. 1745, il TAR Campania, Napoli, con ordinanza 27 gennaio 2016, n. 451, il TAR Molise con sentenza 12 febbraio 2016, n. 77 e il TAR Marche con ordinanza 19 febbraio 2016, n. 451.

[7] Cons. Stato, sez. VI, ordinanza 20 giugno 2016 n. 2703, Cons. Stato, Sez. V, ordinanze 3 marzo 2016 n. 886 e 7 aprile 2016, n. 1385 e Cons. Stato, Sez. III, ordinanza 9 marzo 2016, n. 957.

[8] L’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria in esame è la sentenza non definitiva n. 1116 del 18 marzo 2016. La Quinta Sezione ha però avuto modo di rimettere all’Adunanza la medesima questione anche con sentenza non definitiva n. 1090 del 17 marzo 2016.

[9] Orientamento espresso dalla sentenza 5 aprile 2016, C-689/13.

[10] Sesta Sezione, sentenza 2 giugno 2016, C-27/15, Pippo Pizzo.

[11] Vale la pena far notare come la Corte di giustizia adoperi lo strumento dell’ordinanza e non quello della sentenza, in applicazione dell’art. 99 del regolamento di procedura della Corte, in quanto la questione pregiudiziale esaminata è stata considerata identica ad altra questione sulla quale la Corte aveva già statuito (nel caso in esame, con la citata sentenza Pippo Pizzo).

[12] Art. 95, comma 10, D. Lgs. n. 50/2016.

[13] Tale lettura della norma, peraltro abbastanza univoca nella sua formulazione letterale, è in linea con l’interpretazione relativa alla portata del soccorso istruttorio elaborata in vigenza del vecchio Codice dei contratti.

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Questo articolo è stato scritto da...

Dott.ssa Alessandra Verde
Referendaria consiliare presso il Consiglio regionale della Sardegna
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