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La sentenza n. 8354/2025 del T.A.R. Lazio – Roma, Sezione Quinta, offre un’importante occasione per riflettere su alcuni snodi cruciali in merito alla discrezionalità amministrativa e dell’effettività dei principi ambientali. Essa affronta, tra le altre cose, la questione della mancata esplicitazione dei Criteri Ambientali Minimi (CAM) nella documentazione di gara e le implicazioni che ciò comporta sul piano della legittimità e dell’impugnabilità degli atti.

L’obiettivo principale dei CAM è quello di rendere più sostenibili gli acquisti e gli appalti pubblici, incoraggiando l’adozione di soluzioni che riducano l’impatto ambientale, come ad esempio l’uso di materiali riciclabili, la riduzione delle emissioni di CO2, e la promozione dell’efficienza energetica.

L’inclusione dei CAM nei bandi di gara è obbligatoria per tutte le amministrazioni pubbliche italiane. Gli enti pubblici sono tenuti a verificare che i fornitori rispettino tali criteri quando partecipano ad una gara d’appalto.

Le amministrazioni sono responsabili di verificare che i CAM siano applicati correttamente durante l’intero ciclo di vita dell’appalto, dalla progettazione all’esecuzione del contratto.

In riferimento predetta sentenza, uno dei principali punti di interesse riguarda la qualificazione della mancata menzione dei CAM come “clausola immediatamente lesiva”. Secondo il TAR, il fatto che il bando non contenga esplicitamente i criteri ambientali minimi impone al soggetto interessato di agire entro il termine decadenziale di trenta giorni dalla pubblicazione del bando. Il mancato rispetto di tale termine comporta l’irricevibilità del ricorso presentato successivamente. Questa interpretazione, coerente con un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, rafforza l’idea che la tutela giurisdizionale non possa essere usata in modo dilatorio o opportunistico, ma debba essere esercitata con tempestività e trasparenza, specialmente in un ambito come quello degli appalti, dove l’interesse pubblico alla rapida definizione delle procedure è particolarmente forte.

La seconda affermazione centrale del giudice riguarda il merito della questione: l’omissione dei CAM nella lex specialis non comporta la nullità della procedura. Questo perché i CAM, essendo previsti da norme imperative, si eterointegrano automaticamente nel bando e nel contratto, anche se non espressamente richiamati. Il principio di eterointegrazione consente di sanare, per così dire, una carenza formale con il ricorso diretto alla fonte normativa. Si tratta di una soluzione che richiama al contempo il principio della conservazione degli atti amministrativi (favor validitatis) e il principio di continuità dell’azione amministrativa, soprattutto quando l’interesse pubblico (in questo caso legato all’organizzazione del Giubileo 2025) risulterebbe pregiudicato da un eccessivo formalismo.

Tuttavia, non mancano profili critici che meritano considerazione. Se da un lato l’eterointegrazione tutela l’efficacia delle procedure, dall’altro rischia di compromettere l’effettività delle politiche ambientali. I CAM sono strumenti centrali della strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile e rappresentano uno dei principali veicoli attraverso cui l’amministrazione pubblica persegue obiettivi di tutela ambientale e responsabilità sociale. Se la loro applicazione viene considerata “implicita” a prescindere dalla loro esplicitazione, il rischio è che, nella prassi, se ne sottovaluti l’importanza. In tal senso, la sentenza sembra porre il rispetto della forma e della correttezza procedurale (termine per impugnare, principio di continuità dell’azione amministrativa) al di sopra dell’effettiva valorizzazione dei contenuti sostanziali, come le politiche green.

Un secondo aspetto rilevante della sentenza è quello concernente il principio di self-cleaning, cioè la possibilità per un operatore economico, nonostante una condanna o un illecito, di dimostrare la propria affidabilità attraverso l’adozione di misure correttive. Il TAR ha ritenuto legittimo l’operato della stazione appaltante che, pur in presenza di una condanna per reati ambientali a carico del legale rappresentante dell’impresa aggiudicataria, ha riconosciuto la validità delle misure adottate dall’impresa per prevenire il reiterarsi della condotta illecita, tra cui il pagamento dell’ammenda, la bonifica dell’area oggetto di illecito e la collaborazione con l’autorità giudiziaria.

Questo approccio, che valorizza la buona fede e la volontà di emenda dell’impresa, si muove in linea con il nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023), che promuove i principi del risultato e della fiducia nell’azione amministrativa. Il self-cleaning, dunque, non è solo una misura tecnica, ma anche un istituto che richiama una visione più inclusiva e meno punitiva dell’affidabilità professionale, fondata sulla valutazione caso per caso e su un bilanciamento concreto degli interessi.

Infine, la sentenza conferma i limiti del sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali della stazione appaltante, ribadendo che queste possono essere censurate solo se affette da evidenti vizi logici, irrazionalità o travisamento dei fatti. Questo riafferma il ruolo garantista del giudice, ma anche la centralità della discrezionalità amministrativa quale strumento di gestione flessibile e contestuale dei complessi equilibri che caratterizzano l’attività pubblica.

In conclusione, la sentenza n. 8354/2025 si colloca nel solco di un diritto amministrativo moderno, che cerca di bilanciare esigenze spesso in tensione: certezza del diritto e tutela dell’ambiente, rapidità delle procedure e rigorosità della legalità, discrezionalità tecnica e garanzie del giusto procedimento. Essa evidenzia anche la necessità, per gli operatori del settore, di una consapevolezza sempre più profonda non solo delle regole del gioco, ma anche del momento in cui è necessario agire per tutelare efficacemente i propri interessi.

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Redazione MediAppalti
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